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Quell'acqua dell'Arno.

Quell’acqua dell’Arno.

Quell’acqua arrivò come un sussulto, come uno sparo nel buio. L’unica luce che si illuminò nel tinello ci fece conoscere Firenze e lo straripamento dell’Arno. Capii, il 4 novembre 1966, che la morte era qualcosa di più complesso di quanto fino ad allora avevo immaginato nei miei sette anni: i miei argini erano piccoli davanti all’acqua che aveva tracciato un terribile corso.
Ricordo le immagini piuttosto nitide che apparvero sul televisore, unite al silenzio che ci accomunò. Non avevo avuto esperienza di altri decessi, di una disperazione diversa dalla mia, non avevo messo nel conto che altri potessero subire lo stesso mio dolore sordo per una perdita definitiva: un figlio, una madre, un padre. Non avevo messo nel conto la fragilità delle emozioni. Ero convinto che la disgrazia avesse bussato solo alla nostra porta, pitturando di nero soltanto la nostra casa. Agli altri era stato offerto uno struggimento diverso, più aggrovigliato, più frammentario, più lontano dalla morte: un tipo di sofferenza che non era la recisione di un genitore ma la mancanza di qualcosa di indefinito e indefinibile che non riuscivo a concretizzare.
Ci sarebbero stati bambini, mamme, mogli e anche mariti che avrebbero intrapreso la direzione verso il camposanto a lucidare tombe e accendere lumicini, a giocare tra le foto che non si muovevano, a vivere nell’angoscia nella quale noi eravamo piombati ormai da tempo.
Chissà poi perché accadeva sempre a novembre: mio padre, Kennedy e adesso l’alluvione. Il mese dei morti, come lo chiamavamo, il mese dove tutto si chiudeva, dove tutto si stritolava, dove l’acqua passava e ingrossava i ponti che scrutavano l’Arno. L’acqua che cadeva repentina, come solo a novembre riesce a fare, a bagnare le facce e le anime, a trovare i cunicoli nelle arterie dei fiorentini.
Novembre era il mese adatto alle vedove e agli orfani. Era la mia costante: c’eravate tu e Jacqueline, adesso si aggiungeva qualcun altro.Furono trentacinque le vittime e parevano poche davanti al diluvio, all’acqua che avvolgeva case, piazze e biblioteche. Osservavamo in silenzio, quel silenzio che conoscevamo bene.
Quel silenzio solenne, alto, intenso. Quel silenzio tragico, crudele, spietato. Il silenzio rumoroso della morte.
Ricordo che la maestra, a scuola, ci disse di scrivere dei pensierini che sarebbero andati ai bambini sfollati di Firenze. Non ricordo cosa scrissi, qualcosa di semplice e di impatto. Le cose che si scrivono a sette anni: caramellose e ovvie. Non ricordo con esattezza le parole, ma rammento quei giorni passati la sera davanti al telegiornale. Ricordo i cittadini che si davano una mano: le persone stavano vicine. Ricordo il fango e gli occhi di una signora gonfi di lacrime. Aveva perduto la casa. Lo rappresentava come il male assoluto, come se fosse arrivata alla fine della sua vita, come se avesse smarrito nell’alluvione suo marito o suo figlio. Come se avesse perduto tutto.

(Brano liberamente tratto dal libro “Domani è un altro giorno”, Giampaolo Cassitta. Arkadia editore, 2020.

sardegnablogger 4 novembre 2022

20:00 , 4 Novembre 2022 Commenti disabilitati su Quell’acqua dell’Arno.