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Quarantesette bianchi

Quarantesette bianchi

Mi chiamo Vittorio, Vittorio Bedducu che qui, in questo posto strano mi chiamano Bedducù e sorridono. Babbo ci ha messo la firma perchè non sono maggiorenne. Più che la firma ci ha messo la croce. Mica sa leggere e scrivere babbo. Si spacca la schiena nei campi a piantare meloni e me lo ha detto a voce alta: «Fuggi da questi posti, fuggi che non si vive» e io gli ho detto che mi serviva la firma per andare e mia madre ha raccolto tutte le lacrime del mondo e me le ha messe in tasca, a restituirle con gli interessi. Babbo non mi ha neppure salutato quando ho preso la corriera. Era a lavorare nei campi e contare meloni. Io, da queste parti non ci volevo venire. «In Germania devi andare, in Germania», mi diceva il mio amico, a lavorare nelle fabbriche di macchine. «A Torino, a Torino devi andare», mi diceva mio zio che cercava di sopravvivere in Veneto come portiere in uno stabile. Ed io ho preso il treno per la Germania, per andare in una fabbrica. Mi hanno fermato alla frontiera mi hanno gettato parole che non capivo, mi chiedevano documenti, carte, mi chiedevano cose incomprensibili. Io, a Gosilì, il mio paese, non avevo mai sentito queste richieste. Quel signore in divisa mi ha fermato e mi ha fatto capire che dovevo cambiare treno e mica le strade le potevo gestire io. E ho provato a dire che mi piaceva la Germania e le automobili da costruire e quello non capiva o capiva e non voleva capire. Insomma, mi fanno cambiare treno e finisco in un posto tutto verde, dove pioveva tutto il giorno. La Belgique, mi dicevano, e io mica le conoscevo le città e i continenti. Son finito con un altro italiano di Sicilia e uno di Trieste davanti ad un signore che ci ha fatto firmare. Io ho chiesto: «Ma andiamo a fare le automobili?», lui mi ha guardato e mi ha detto di mettermi in fila. L’ho capito dal dito, mica dalle parole. Eravamo una quarantina. Qualcuno ci ha contato. Eravamo quarantasette. E’ arrivato uno, con un ghigno scavato e duro e , sempre con la mano, ci ha detto di seguirlo. Lo abbiamo fatto. Io speravo di vedere una fabbrica. Ma ci hanno messo in una piattaforma che correva, correva, verso il basso, verso il ventre della terra. Ci hanno dato una pala e una lampada e ci hanno detto di scavare. Volevo andare in una fabbrica, volevo costruire le automobili. Niente. Rien. Mi chiamo Vittorio, per tutti Vittoriò. Eravamo quarantasette e molti non ci sono più. Vivevamo in baracche luride, lercie e oggi quasi mi vergogno a raccontarla questa cosa. Volevamo costruire le automobili e ci hanno offerto la miniera. «Gli italiani non hanno nessun diritto», dicevano. Era il 1964. Cambierà tutto questo, ne sono convinto. Ci sarà un giorno in cui gli emigranti saranno accettati come forza lavoro, come inclusione, semplicemente come uomini. Potranno, con un permesso di soggiorno, scegliersi il luogo dove andare, dove lavorare, dove far crescere i propri figli. Fra cinquant’anni, nel 2014, sono convinto non ci sarà nessuno che costringerà quarantasette  migranti a non poter scegliere quello che vorranno fare. Ma sono soprattutto convinto che nella mia terra, in Sardegna, nel 2014 tutto questo non potrà mai accadere. Perché noi siamo stati emigranti e ce l’abbiamo sulla pelle questa storia. Parola di Vittoriò Bedducù che voleva costruire le automobili ed è finito malato di silicosi. Senza poter scegliere.

(dedicato ai quarantasette migranti deportati a Sadali e dedicato a Roberto Bolognesi che con grande maestria ha raccontato in un post apparso su Sardegna Blogger  una terribile storia accaduta nel 2014.  In questi giorni. In Sardegna)

22 Responses

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