
Credo si debba parlare più di Alexander Zverev che di Jannik Sinner. Perché, da queste parti, nessuno vuole essere Robin: tutti vogliono viaggiare in prima classe. E trovare un uomo di 29 anni che ammette di essere meno forte del suo avversario lo colloca tra i più fighi della classe. La consapevolezza di non essere il migliore contiene in sé la bellezza del conoscersi nel profondo e di sapere i propri limiti. È straordinario trovarsi di fronte a qualcuno che osa, ma poi, se perde, sa fare un passo indietro con dignità.
È vero, vincere è bello, e accontentarsi, alla lunga, non fa bene né al fisico né, soprattutto, al fegato. Ma Zverev ha capito che, a volte, gli occhi degli dèi sono riservati solo ai primi dell’Olimpo. Lo ha capito in un momento preciso: quando, durante il tie-break con il punteggio ancora sul 3 a 3, quella pallina, invece di spostarsi di un centimetro verso il campo del suo avversario, è rimasta per un’eternità ferma sulla striscia della rete, per poi cadere dalla sua parte. Lei, la pallina, si è come arresa. E, con lei, si è spenta la luce di Zverev.
È stato un attimo, una scintilla che ha incendiato il castello che Zverev stava costruendo. Ho visto i suoi occhi spegnersi e ho visto, sconsolato, il momento in cui si spogliava del vestito di Batman per indossare quello di Robin. E, in quel preciso istante, Zverev ha vinto, nonostante gli dèi abbiano, ovviamente e giustamente, portato sul podio il giovane e talentuoso Sinner.
È la vita, ragazzi. E una partita di tennis è solo una partita di tennis. Un piccolo pezzo di vita.