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Perché si uccide?

Perché si uccide?

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Perché si uccide? E perché siamo così assetati di conoscere, di classificare, di incasellare in fretta la vittima e il carnefice? Perché, se l’assassino è extracomunitario, proviamo rabbia e rancore, mentre se è bianco e benestante iniziamo a cercare possibili scenari che – senza giustificarlo – finiscano comunque per annacquare il gesto?

Un ricco bianco che commette un delitto era “alterato”: ma che significa? Aveva bevuto? Era drogato? Vittima di un raptus religioso? E se fosse stato povero e straniero? Non aveva forse lo stesso “diritto” a bere o drogarsi?

E la vittima? Diventa subito eroina, martire o – peggio – una donna con una vita “travagliata” alle spalle. Salite, inciampi, cadute: etichette già viste, già sentite, che rischiano di strappare un sorriso amaro se non fosse che c’è da piangere.

Ieri, durante una trasmissione di Videolina, ho apprezzato l’intervento di Cristina Cabras che, da studiosa esperta di delitti “rapaci”, ha ricordato che è troppo presto per delineare un quadro psicologico e sociale del presunto assassino. Ma nell’era delle quick news non c’è tempo per l’attesa. Servono verdetti in cinque minuti, condanne esemplari, cuoricini, lacrimucce e un bel “R.I.P.”, prima di passare a un’altra storia.

Il caso di Cinzia Pinna è esemplare. La ragazza scompare, iniziano le ricerche: le forze dell’ordine capiscono subito che non si tratta di un allontanamento volontario. Le indagini si concentrano su un giovane molto conosciuto ad Arzachena. Dopo due settimane, il caso si chiude: il ragazzo confessa, il corpo di Cinzia viene ritrovato, la stampa costruisce la notizia. Ma resta un problema: come presentarla?

Forse un tentativo di stupro? Ma cosa c’entra la pistola? Lei era salita in macchina “consenziente”? Su questo presunto consenso si innesta una trama che è ancora tutta da dimostrare, ma che mostra come le storie vengano spesso raccontate più dai narratori che dai giornalisti. E allora bisogna spiegare il gesto del rampollo agiato: era un bravo ragazzo, forse egocentrico, ma buono; gran lavoratore, allegro. Sì, è vero, dopo l’omicidio ha preso l’elicottero per andare al compleanno della madre, ma – si dice – i figli so’ piezz’e core.

Il nonno, il padre, lo zio sindaco: tutto finisce nel racconto. Ma cosa c’entra la parentela illustre con l’aver sparato a una donna indifesa? Che nesso c’è tra il femminicidio e l’amicizia del nonno con l’Aga Khan?

La vera domanda è un’altra: dov’è Cinzia in questo racconto? Perché non parliamo di lei, del fatto che si è fidata di un “bravo ragazzo” che a un certo punto ha impugnato una pistola – legittimamente detenuta? qualcuno l’ha chiesto? – e ha sparato come se davanti a sé avesse un nemico da abbattere?

Queste sono le domande che contano. E, nel tempo, forse troveranno risposta. Ma state certi: poco hanno a che fare con il nonno potente o con il padre imprenditore. Quella è solo cornice. E i giornali, troppo spesso, ci raccontano solo la cornice, dimenticando il quadro. Come se, davanti alla Gioconda, ci limitassimo a descrivere l’intaglio della cornice senza guardare lo sguardo enigmatico del dipinto.

Se vogliamo davvero rispettare la memoria di Cinzia Pinna e restituirle la dignità che merita, dobbiamo riavvolgere il nastro e mettere al centro le domande scomode:
perché l’ennesimo femminicidio? Dove sbagliamo, e perché continuiamo a sbagliare? Come è possibile che, nonostante campagne pubblicitarie, formazione, sensibilizzazione, ci siano ancora uomini – bianchi, neri, ricchi, poveri, credenti o atei – pronti a puntare una pistola contro una donna?

Perché?