
Poniamo subito le cose in chiaro: il pentimento, come categoria giuridica, non esiste. Nessun giudice prende in considerazione chi, davanti a un delitto commesso, dica semplicemente “mi dispiace” o “non lo farò più”.
Chi, in questi giorni, parlando di Emanuele Ragnedda, l’uomo accusato di aver ucciso Cinzia Pinna, utilizza la parola pentimento, dice qualcosa di profondamente sbagliato.
In tribunale contano i fatti, non le emozioni. E portare come esempio di pentimento il fatto che abbia confessato e aiutato gli inquirenti a ritrovare il corpo della povera Cinzia non basta. Non è, tecnicamente, un reo confesso e, soprattutto, dopo la commissione del delitto non ha mostrato alcuna condotta che lasci intravedere il minimo segno di ravvedimento. Al contrario, ha continuato a vivere come se nulla fosse accaduto, pur avendo tolto la vita a una donna e occultato il suo corpo nella propria tenuta.
Il pentimento è un sentimento personale e intimo. In senso religioso, significa riconoscere il peccato commesso, provare un sincero dolore davanti a Dio e decidere di non ripeterlo; in senso laico è un moto interiore che porta a riconoscere l’errore e, idealmente, a voler cambiare. Può avere valore etico, ma non ha alcuna conseguenza giuridica.
Ragnedda si trova oggi in una fase complicata, e probabilmente non ha ancora realizzato fino in fondo l’atrocità commessa: quella di aver ucciso una giovane donna con alcuni colpi di pistola. Le giustificazioni emerse dagli interrogatori, da valutare con cautela, non valgono nulla davanti alla gravità del gesto. Saranno i prossimi giorni e le prossime settimane a delineare con maggiore chiarezza il quadro di ciò che è realmente accaduto nel momento in cui Cinzia ha perso la vita.
Il carcere è ora un passaggio inevitabile e sarà il futuro di Ragnedda per molti anni. Lì dovrà affrontare la vita con una postura diversa. Ci sarà tempo per il ravvedimento, per la riparazione del danno, per comprendere l’enormità del gesto. Ma non è questo il tempo. Non può esserlo.
Non è importante chi fosse, da quale famiglia provenisse. Non è importante ai fini della pena. Ciò che conterà, in futuro, sarà il percorso che intraprenderà: se davvero nei suoi gesti e nella sua nuova esistenza ci sarà un segno di ravvedimento autentico, reale, concreto e propositivo.
Chiederlo adesso è impossibile. Dire che si è pentito non serve a nulla: non restituisce la vita spezzata e ha solo un valore salvifico, legato alla coscienza e alla fede. I passi che Ragnedda sarà chiamato a compiere saranno dolorosi.
E noi, come comunità, dovremo prestare attenzione a quel cammino. Un cammino di un uomo che ha commesso il più orrendo dei delitti.
Noi, come comunità laica, non faremo sconti e non accetteremo scorciatoie nel nome del perdono. Potremo, semmai, apprezzare in futuro un ravvedimento completo, se mai ci sarà.
La strada è lunghissima. Per Emanuele Ragnedda è appena cominciata.
Questo articolo è stato scritto il venerdì, Settembre 26th, 2025 at 16:19
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Tags: femminicidio, giustizia, pentimento
Posted in: Blog, le ragioni di Caino