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Le trame del 1978 e l'omicidio Pecorelli. Nessuno ricorda.

Le trame del 1978 e l’omicidio Pecorelli. Nessuno ricorda.

Ho il ricordo vivido, legato agli sguardi e alle situazioni. Francesco, il mio edicolante che mi porge un settimanale e mi chiede: “Perché non lo leggi nella rassegna stampa in radio?” Un rotocalco leggerissimo, con poche pagine e, rispetto all’Espresso e Panorama di allora, senza pubblicità. Quel settimanale si chiamava OP, era l’acronimo di Osservatorio Politico. Costava 500 lire e nel numero dell’Aprile 1978 si parlava di una lettera segreta di Aldo Moro inviata dalla prigione delle brigate rosse alla moglie. Il direttore di quella rivista era Mino Pecorelli, ucciso il 20 marzo 1979 in maniera molto misteriosa con mandanti e assassini sconosciuti.

Il mio ricordo è legato ai giorni della trattativa per liberare Aldo Moro ed io, come Pecorelli (e come tanti altri) mi schierai per provare almeno a discutere con gli uomini delle brigate rosse.

Quello che mi colpì (e me lo porto sempre dentro come un ricordo) è che nei giorni antecedenti il sequestro Moro (proprio qualche giorno prima, se i ricordi non mi tradiscono) si parlava moltissimo dello scandalo Lockheed e dell’identità dell’Antilope Kobbler, di Camillo Crociani e degli amici di Michele Sindona. Mi rendo conto di essere depositario di una memoria quasi personale e che, invece, la maggioranza del paese questi fatti non li conosca o non li ricordi. Tutto questo è ritornato alla mente a seguito dell’articolo pubblicato su sardegnablogger da Francesco Giorgioni che si è trovato in imbarazzo, da docente in una scuola, a dover dare spiegazioni su quegli anni del terrorismo in Italia, anni in cui si è rasentata la guerra civile e che, incredibilmente non sono conosciuti quasi da nessuno. Giorgioni lo ha fatto partendo dalla cattura di Cesare Battisti e ha chiesto se qualche ragazzo conoscesse la storia e le vicende del periodo in cui Battisti era un terrorista: nessuno sapeva nulla. Nessuno. Come nessuno ricorda il settimanale OP, la quarta lettera segreta di Moro (citata, in seguito, da Leonardo Sciascia nel saggio “l’Affaire Moro”) quei toni bibilici da maledizione: “Il mio sangue ricadrà sulle teste di Cossiga e Zaccagnini”.

Nessuno ricorda. Nessuno. Erano anni intensi, lividi, erano anni in cui le notizie camminavano (forse come sempre) all’interno di imbuti nascosti che rallentavano o, addirittura depistavano le notizie e la verità.  Erano gli anni dei complotti, delle trame nere, dei servizi segreti, di stragi di Stato. Eppure, Mino Pecorelli con il suo settimanale, raccontava altri intrighi ma pareva avesse anche diverse verità. Lui, per esempio, non aveva nessuna paura che Moro, durante la prigionia, rivelasse alla BR dei segreti di Stato. Pecorelli riteneva che l’Italia era uno stato che non avesse segreti da custodire. Il pericolo vero, sempre secondo Pecorelli, era che Moro rivelasse segreti di uomini politici e di partiti. Una frase quasi buttata con noncuranza, con leggerezza, all’interno delle pagine del suo settimanale. La curiosità, per Pecorelli (e non la sua paura, almeno credo) era legata al fatto che Moro potesse rivelare l’identità dell’Antilope nazionale. Quel nome che sfiorava Andreotti, Tanassi, Rumor e, addirittura, lo stesso Moro. Perché Pecorelli scriveva questo? Ma, soprattutto, chi era Mino Pecorelli?

Era un  molisano nato nel 1928, con una laurea conseguita all’Università di Palermo, ucciso a Roma la sera del 20 marzo 1979, ad un anno quasi esatto dal rapimento di Aldo Moro (per i cabalisti solo quattro giorni dopo il sequestro. Quattro come i punti cardinali, come i quattro evangelisti; nella smorfia napoletana il numero quattro è il maiale). La sua morte è ancora avvolta dentro uno dei tanti misteri di questa Repubblica e, paradossalmente, la morte dimostra che Pecorelli avesse torto almeno su una considerazione: che questo fosse un paese senza segreti. Pecorelli, la sera del 20 marzo 1979 uscì dalla redazione del suo settimanale per fare rientro a casa. Raggiunse la sua auto – una Citroen parcheggiata tra via Tacito e via Orazio nel quartiere Prati di Roma – mentre due killer si affiancarono e lo uccidono con quattro colpi (ritorna, cabalisticamente, il numero quattro e per concludere con la cabala politica e complottistica il cadavere di Moro fu rinvenuto all’interno di una Renault4). Pecorelli è ucciso e i bossoli restano a terra: due di essi sono di marca Gevelot, molto rara. Una riserva di quel tipo di proiettili sarà ritrovata nell’armeria della banda della Magliana, nei famosi sotterranei  del Ministero della Sanità. Il primo mistero riguarda gli istanti legati alla sua morte. Poche ore dopo l’omicidio la redazione del giornale viene perquisita ma non benissimo. I carabinieri ritorneranno dopo qualche giorno e porteranno alcuni scatoloni di documenti. Però –  ed è un dubbio che ho sempre coltivato – nessuno si preoccupa di mettere i sigilli alla redazione e quindi è probabile che molte cose possano essere sparite tra le due visite delle forze dell’ordine. Le prime indagini furono piuttosto inconcludenti. Si batté una pista che indagava sui NAR (nuceli armati rivoluzionari, gruppo neofascista) ma non portò nessun apprezzabile risultato. Non accadde nulla  – e nessuno si preoccupò di seguire la pista dei bossoli – sino al 1993 quando Tommaso Buscetta rivelò ai giudici che la morte del giornalista era stata ordinata da Stefano Bontade e Tano Badalamenti. Sulla strada di Pecorelli c’era dunque la mafia. Troppo complesso e di difficile lettura. Però Buscetta disse anche un’altra cosa: il vero mandante era Giulio Andreotti, il divo, l’uomo che era stato attaccato più volte da Mino Pecorelli sulle pagine del suo settimanale OP. Sappiamo come sono andate a finire le cose: Nel 1999 ci fu l’assoluzione per tutti gli imputati, la condanna per Andreotti e Badalamenti nel 2002 in appello e, infine, nel 2003 l’assoluzione per tutti in Cassazione e senza ripetizione del processo. Dei bossoli, di quegli strani bossoli nessuno si è mai occupato e, a dire il vero, nel processo mediatico tutti hanno acceso i fari sul divo Andreotti (o Belzebù, a seconda di chi ne scriveva) liquidando Pecorelli come un pennivendolo ricattatore. Pecorelli era uno che con le parole ci giocava e i suoi articoli erano tutti colmi di sottintesi, di allusioni, parevano tutti messaggi sulla bottiglia inviati a chi aveva la certezza di comprendere ciò che voleva effettivamente dire. Quasi sicuramente si riforniva di notizie da fonti dei servizi segreti e quasi sicuramente una delle fonti era quel Vito Miceli che era stato direttore del SID dal 1970 al 1974, deputato MSI dal 1976 al 1988. Altra fonte probabile era Licio Gelli che a quei tempi galleggiava all’interno di un vero e proprio mondo di mezzo con la sua loggia massonica segreta P2 (propaganda 2). Messa così però non rende troppo bene la figura di Pecorelli che, grazie al dosseraggio e ai ricatti sin riteneva potesse contare su molte somme in denaro.

Non era così. Il giornalista, a quanto si è potuto appurare, era praticamente sempre in bolletta e non navigava nell’oro. Sapeva scrivere e amava moltissimo i complotti. Aveva una curiosità innata per capire certe macchinazioni e, forse, qualcosa la ingigantiva, ma dava l’impressione di essere sempre sulla “notizia”. Non era un parvenu, anche se era arrivato a Roma alla fine del 1950 per tentare la carriera di avvocato e si trovò, invece, a fare il capo ufficio stampa del ministro Fiorentino Sullo, democristiano di sinistra;  in quel ruolo cominciò a tessere amicizie e raccogliere piccoli segreti. Dopo questa esperienza formante decise di svolgere il giornalista a tempo pieno,  ma dopo un periodo in un giornale scandalistico “Mondo d’oggi” e dopo la chiusura da parte dell’ufficio affari riservati del Viminale, Pecorelli decise di mettersi in proprio con la propria testata: senza padroni, con trame sempre pronte da raccontare, complottista per antonomasia e incredibilmente informatissimo sul sequestro Moro. Non era un giornalista famoso ma era famosissimo in certi ambienti e Andreotti lo conosceva sicuramente molto bene. Viveva, con la sua agenzia, nella terra di mezzo, in un cono d’ombra dove il potere camminava silente e cinico e divenne così il giornalista ricattatore che, in realtà, non fu. Rimangono sul piatto quei due bossoli di marca Gevelot. Forse se le indagini si fossero svolte in un certo modo, forse se si fosse guardato con più attenzione sulla scrivania, appena accaduto l’omicidio. Forse.

Nessuno conosce la verità di questa morte  rimasta impunita. Nessuno conosce i giochi che camminarono in quegli anni: dalle brigate rosse alla banda della Magliana, dai servizi segreti alle stanze del parlamento. Oggi siamo diventati tutti come gli alunni del buon Giorgioni: nessuno ricorda, nessuno conosce, nessuno è in grado di effettuare passaggi razionali di un periodo in cui l’Italia era in guerra senza che nessuno l’avesse dichiarata. Ecco, Pecorelli è una vittima di quella guerra, una vittima che aspetta alcune risposte. Magari bastava seguire quei bossoli, magari si sarebbe trovata la giusta pistola, le impronte digitali e, magari…

Lo so, io penso sempre di sapere tutto ma come il buon Pasolini non ho le prove e questo rimane solo un piccolo pezzo di giornale che tra qualche giorno ritornerà nell’ombra: come Pecorelli, come il suo settimanale, come quei due bossoli, come molte altre trame e segreti del sequestro di Aldo Moro. Come la nostra intensa adolescenza avvolta dentro questo grigio che ancora ci accompagna.

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