Ho camminato nelle curve della follia e ho visto in quelle celle gli occhi di chi non aveva niente tra le tasche delle opportunità. Ho visitato l’ospedale Psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino e ricordo i rumori sordi di voci senza parole e alcun futuro. Ho contribuito, nel 2012, a far nascere la REMS di Capoterra, la residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza, un passo ulteriore verso il gradino della civiltà. Poi la tragedia della Dr.ssa Barbara Capovani, la psichiatra di Pisa uccisa da una persona affetta da disturbo della personalità con caratteristiche di narcisismo, atteggiamento antisociale e paranoico rimette tutto in discussione e si ritorna al punto di partenza: ad una richiesta, seppur timida, di riaprire i manicomi e di rivedere la legge Basaglia, voluta fortemente da uno psichiatra che aveva un’immensa visione, quella di una società che doveva accettare, per dirsi civile, tanto la ragione quanto la follia. Era una legge che vedeva la luce il 14 aprile 1978, proprio durante i 55 giorni del rapimento dell’Onorevole Moro, ma la gestazione era stata lunga e complessa, figlia di una poderosa e attenta meditazione. Si proponeva di superare la logica “manicomiale” e, per certi versi, precedeva l’idea di una decarcerizzazione mai del tutto attuata in un paese dove le riforme camminano sempre tra le linee politiche contrapposte. La legge 180 abolì, di fatto, i manicomi, istituendo i servizi di igiene mentale e provando a ragionare in maniera diversa, superare quella che Basaglia considerava “costrizione”. L’idea, bellissima e visionaria, era quella di “preoccuparsi” del paziente e non semplicemente di “occuparsi del matto” anche perché nei manicomi ci finivano, il più delle volte, dei disadattati, dimenticati, rifiuti umani, ultimi per forza e non semplicemente dei malati da curare. I manicomi e le carceri in quanto istituzioni totali avevano in comune l’idea del “controllo” e non rispondevano alla possibilità di un reinserimento nella società. Luoghi di parcheggio, di cassetti da non riaprire, storie da dimenticare. L’uccisione della psichiatra ci riporta a rivedere alcuni passaggi e ci suggerisce alcune riflessioni. La prima, seppure dolorosa, è quella di provare ad osservare le azioni con un dosaggio di razionalità e in maniera oggettiva: possiamo modificare una legge per un singolo episodio? La seconda è legata invece a ciò che si poteva fare e, magari, non è stato fatto. Si parla ormai da anni e negli ultimi mesi in maniera sempre più grave della crisi del welfare, delle difficoltà del servizio sanitario nazionale, delle poche risorse a disposizione, dell’impossibilità per un cittadino di curarsi. Ecco, la legge 180/78 scommetteva moltissimo sul servizio sanitario nazionale demandando l’attuazione del problema psichiatrico alle regioni, con risultati ovviamente eterogenei. Alcuni manicomi chiusero in poco tempo, altri ci misero degli anni, così come gli ospedali psichiatrici giudiziari, gli ultimi chiusi soltanto nel 2014. Il problema, a ben vedere, non è la legge Basaglia ma la sua attuazione e l’impoverimento degli interventi nel corso degli anni, nonostante la recrudescenza di alcuni comportamenti antisociali. Così, anziché preoccuparsi di questa fenomenologia, si è deciso di smussare, abbassare la guardia, utilizzare più farmaci e inserire meno medici. Abbiamo deciso di non scommettere su delle strutture dedicate a questo tipo di problematiche e i risultati sono ormai allarmanti: la morte di Barbara Capovani deve costringerci a chiedere quali siano i passaggi per mettere in pratiche i principi enunciati dalla legge Basaglia. E in questo campo le regioni devono trovare le giuste risposte. In Sardegna esiste una REMS per soli 16 pazienti, mancano le cliniche convenzionate e le comunità sia per adulti che, soprattutto, per minori. La riflessione dovrebbe partire da questo punto. Senza toccare la legge Basaglia. Ma preoccupandoci e non semplicemente occupandoci dei pazienti.
(Articolo apparso su La Nuova sardegna, 27 aprile 2023©Giampaolo Cassitta