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Le convergenze parallele. Dai giorni di Moro a quelli di Falcone e Borsellino.

Le convergenze parallele. Dai giorni di Moro a quelli di Falcone e Borsellino.

Dobbiamo partire dai giorni di aprile. Quelli del 1978. Quando lo Stato era diventato un atomo impazzito, sfregiato dal sequestro Moro. Se quei giorni li avesse vissuti Pier Paolo Pasolini avrebbe rispolverato il suo famoso articolo sulla scomparsa delle lucciole, apparso il 1° febbraio 1975 sul Corriere della Sera dove si parlava di “vuoto di potere” ma non “un vuoto di potere legislativo o esecutivo, non un vuoto di potere dirigenziale, né, infine, un vuoto di potere politico in qualsiasi senso tradizionale. Ma un vuoto di potere in sé”. Il 4 aprile 1978, un altro intellettuale, Leonardo Sciascia, dichiara al settimanale Panorama:” Vale la pena difendere questo Stato? Dieci mesi fa ho detto: “Così come’ è, no, non vale la pena di difenderlo”. Oggi dico: così come va diventando siamo noi che dobbiamo difendercene. Dieci mesi da mi appariva come un guscio che racchiudesse, per dirla vittorianiamente, putredine e morte. Oggi mi pare come un guscio che può essere riempito da un momento all’altro, e forse anche senza che ce ne accorgiamo, comunque riempito. Comunque: ma, in ogni caso per noi, pericolosamente”.
Si aveva la sensazione, in quei giorni, che il “vuoto dello Stato” potesse essere riempito da qualcosa di ingovernabile, sconosciuto, diverso da quello che era stato per trent’anni: ovvero il potere democristiano avvallato dal Vaticano.
Il 19 aprile 1978, sul quotidiano “lotta continua” appare un appello, ispirato da Raniero La Valle e rivolto al governo italiano, al parlamento, ai partiti, “a coloro che detengono Aldo Moro, con l’auspicio che siano fatti i passi necessari e formali per la liberazione di un uomo che sta pagando e ha pagato un prezzo altissimo.” L’appello è sottoscritto da personalità del mondo ecclesiastico, sindacale, culturale e politico.
I passi necessari e formali. La richiesta di un contatto con chi “detiene” Aldo Moro. I passi che portano, necessariamente alla “trattativa”. Giulio Andreotti, Presidente del Consiglio in carica non intende trattare ed annota nel suo diario: “Una flessione vorrebbe dire la reazione e il disimpegno dei carabinieri, guardie di PS e ancor più degli agenti di custodia, colpiti anche ora a Torino; ed è quello che vogliono”.

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La foto che ritrae il presidente della democrazia cristiana Aldo Moro rapito il 16 marzo del 1978 dalle Brigate Rosse
Dobbiamo partire dai giorni lividi di Aprile. Quelli del 1978. Quando la direzione dell’allora Partito Socialista Italiano approva un documento che, pur escludendo lo scambio di prigionieri, lascia intravedere la possibilità di una trattativa.
Il problema, a quei tempi era “politico”, nel senso che l’attacco al cuore dello Stato era vissuto come l’attacco ai “politici” più che allo Stato. E, infatti, l’allora segretario generale dell’ONU Kurt Waldheim lancia un appello via satellite alle brigate rosse chiedendo di rilasciare “immediatamente” l’Onorevole Aldo Moro. L’appello è ripreso dal quotidiano l’Avanti e suscita le dure reazioni dei “partiti della fermezza” PCI e PRI. Insomma, a quei tempi la trattativa è vista non come una sconfitta ma come un modo “politico” di risolvere la questione, ma Berlinguer e La Malfa la pensano in maniera diversa. Con il terrorismo non si tratta. Ci sono giochi complessi e difficili da mettere a fuoco ma, in ogni caso, la sentenza viene emessa. Aldo Moro viene ucciso. C’è un passaggio, però, che ci serve per comprendere quello che accadrà, successivamente, con la mafia. E’ una dichiarazione di Ugo La Malfa al Corriere della sera del 28 aprile 1978. “Se il PCI fosse stata quella diabolica forza politica che mira all’esclusività del potere non avrebbe incitato la DC a resistere. Avrebbe anzi raccolto il cedimento con un apporto al proprio disegno politico diabolico. Sarebbe stato così comodo dire alle DC: se vuoi salvare Moro, salvalo pure. Se il PCI avesse detto questo e la DC l’avesse fatto, i comunisti sarebbero rimasti la sola forza di governo del nostro paese”. Sappiamo tutti come è andata. La trattativa è stata avviata. Ci provarono tutti: dal Vaticano a Bettino Craxi, dai familiari di Moro ad alcuni esponenti democristiani. Chiaramente senza esporsi. Craxi incontra addirittura Lanfranco Pace e Franco Piperno e il leader dei collettivo di Via dei Volsci, Daniele Pifano. Ma non funziona. Quella trattativa non poteva funzionare. Negli anni, dopo la cattura di chi quel sequestro lo ha pianificato ed effettuato, di chi quell’omicidio lo ha compiuto, capiremo perché: era una trattativa “politica” e nessuno, in quel momento poteva trattare in quanto, paradossalmente, vi erano i controlli effettuati dai partiti dell’opposizione. Ciò non accadde con la mafia o, comunque non accadde nello stesso modo.
Dobbiamo però ricordare, per dovere di cronaca, che lo Stato con i brigatisti giunge ad una sorta di accordo, soprattutto con quelli che stavano in carcere sotto l’allora famigerato articolo 90. Significava carcere duro, soprattutto all’Asinara, a Pianosa e a Cuneo. Nel 1983 comincia una trattativa con i detenuti e lo Stato: nasce l’area omogenea di Rebibbia dove i terroristi (prevalentemente uomini e donne delle brigate rosse) trovano un loro habitat e decidono di scendere a patti legali con i rappresentanti dello Stato. In cambio un lungo processo di “risocializzazione” che prevede, nel futuro, l’accesso a dei benefici come il lavoro all’esterno e la semilibertà.

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Vincenzo Scotti, Ministro della Giustizia nel 1992, sostituito da Nicola Mancino
Il terrorismo vede, così il suo tramonto ed affiora, lentamente, la criminalità organizzata, quella della camorra, inizialmente con la lotta tra nuova camorra organizzata e nuova famiglia. Successivamente ci si occuperà della ‘ndrangheta e, infine della mafia. La più pericolosa. Nel 1985 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino lo avevano capito. Quell’anno, l’anno della loro villeggiatura forzata all’Asinara, stavano per scrivere il rinvio a giudizio di moltissimi mafiosi e stavano mettendo la firma per la loro condanna. Lo sapevano. Erano, in qualche maniera consapevoli. Ma loro, rappresentavano lo Stato. Erano lo Stato e non potevano indietreggiare. Alla loro morte lo Stato mostra il pugno di ferro e risponde alle stragi con il famoso decreto “Martelli”, a nome di Claudio Martelli, allora Ministro delle Giustizia. Il decreto prevede una serie di misure legislative anticosche e, soprattutto, nascono delle restrizioni per i mafiosi detenuti, con l’introduzione dell’articolo 41 bis nell’ordinamento penitenziario, che diverrà operativo solo dopo la morte di Paolo Borsellino. Il terrorismo era stato sconfitto con l’articolo 90, successivamente soppresso nel 1986 dalla legge Gozzini. La differenza è sostanziale. L’articolo 90 prevedeva delle restrizioni in alcuni istituti penitenziari dove si rendeva necessaria la sospensione temporanea del regolamento per ristabilire l’ordine e la disciplina. L’articolo 41 bis è invece “ad personam” e a firma del Ministro. E’, dunque, un atto politico e rappresenta un atto molto importante. Il carcere duro, per i mafiosi è qualcosa di “incomprensibile”. I terroristi, infatti, volevano – con le loro azioni -colpire il cuore dello Stato e distruggerlo. La mafia percorre altre strade, parallele a quelle dello Stato e, parafrasando Aldo Moro, queste strade parallele possono incredibilmente “convergere”.
Nei giorni successivi alla morte di Giovanni Falcone il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe Di Donno incontrano Vito Ciancimino. Perchè? Se lo chiede anche Paolo Borsellino che alla fine del mese di Maggio del 1992 li convoca nel suo ufficio. Questo incontro viene rivelato dai due ufficiali del Ros solo sei anni dopo. Gli incontri con Ciancimino servirebbero per rivelare il nascondiglio dell’allora superlatitante Totò Riina ma, in realtà i passaggi sembrerebbero altri: si cerca una vera e propria trattativa sotterranea tra lo Stato e la mafia.
Le convergenze parallele.
Molto convergenti.
Da questa storia, raccontata dai pentiti Giovanni Brusca e Totò Cancemi, ritenuti attendibili dagli inquirenti, viene fuori il famoso “papello”, ovvero delle richieste per ottenere concessioni legislative e carcerarie, in cambio della promessa di fermare le stragi e restituire la pace al paese. Queste sono le ipotesi del Pm Luca Tescaroli, che ha coordinato le indagini sulla strage di Capaci e i brandelli di uno Stato debole con gli uomini della mafia ritengono che vi sia un ostacolo da superare. Quell’ostacolo si chiama Paolo Borsellino.

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Nicola Mancino. Nel giugno del 1992 sostituirà Vincenzo Scotti al Ministero della Giustizia
Anche in questa storia nascono i depistaggi e nascono strani movimenti. L’allora ministro degli interni Vincenzo Scotti proclama che la strage di Capaci è stata decisa fuori dai confini nazionali. Vi sono molti rapporti riservati su sulle minacce rivolte a molti magistrati (tre cui Di Pietro) e soprattutto a Paolo Borsellino, considerato – e a ragione – l’erede di Giovanni Falcone. Ma il suo capo Giammanco tacerà di un rapporto dei ros che lo indica come un bersaglio di nuovi attentati. Le convergenze parallele.
Siamo alla fine di giugno del 1992: a Palermo centomila sfilano in piazza in ricordo di Giovanni Falcone. Nel resto del paese infuria Tangentopoli. A Roma nasce il governo tecnico di Giuliano Amato. Scotti, l’uomo che denuncia la natura eversiva della strage di Capaci, viene misteriosamente trasferito agli esteri. A suo posto arriva Nicola Mancino. Nello stesso periodo comincia a collaborare il pentito di mafia Leonardo Messina, quello che per primo parlaerò di golpe, intrecci massonici, servizi deviati e manovalanze mafiose che puntano a ridisegnare il paese in una serie di federazioni asservite al potere mafioso. In quei giorni, in quei maledetti giorni si decide anche la sorte di Paolo Borsellino. Sorte che qualcuno comunque conosceva. Nella seconda settimana di luglio, un confidente dei carabinieri di Milano rivela che si sta preparando un attentato a Di Pietro e a Borsellino. La fonte è ritenuta attendibile e il ROS di Milano invia un rapporto alla Procura di Milano e a quella di Palermo. L’informativa, urgentissima, viene inviata per posta ordinaria e arriverà a Palermo dopo la strage di Via d’Amelio dove Borsellino viene ucciso insieme alle donne e agli uomini della scorta.
Le parallele. Che stavolta non convergono.
Nel gennaio del 1993 viene finalmente arrestato Totò Riina che viene spedito, da subito, all’Asinara. Ma non a Fornelli dove avrebbe potuto mantenere contatti con i suoi luogotenenti e picciotti. Gli viene preparato un vero e proprio Bunker nel reparto “transito” a Cala d’Oliva, vicino alla Diramazione Centrale. Questo soggiorno però non durerà a lungo. Lentamente Riina viene trasferito prima per seguire i processi e poi definitivamente. La parentesi Asinara si chiude per lui e per tutti gli altri. Le convergenze parallele.
C’è stata trattativa? L’allora Ministro della Giustizia Nicola Mancino ha allentato il regime duro, quello previsto dall’articolo 41 bis? Perchè, ad un certo punto si decide di smantellare le sezioni di massima sicurezza di Pianosa e Asinara?
Si è trattato? Il dubbio resta. E permane.
Quel dubbio lo ha anche Loris D’Ambrosio.
Chi era Loris D’Ambrosio? Ce lo racconta, con buona predisposizione per i ricordi, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nella deposizione del 27 ottobre 2014 . Era un uomo di Stato, che incarnava lo Stato, Capo di Gabinetto del Ministro della Giustizia Flick e, precedentemente, aveva lavorato presso la Procura di Roma, assumendo, come ricorda Napolitano, un’eredità molto delicata: “quella del Giudice Amato, ucciso barbaramente dai terroristi, e si era impegnato in quella attività istruttoria che era stata fino a quel momento svolta dal Dr. Amato”.
Il dr. D’Ambrosio era una vena importante di questo Stato con un cuore sempre troppo ammalato. Era un punto di riferimento per chi scriveva le leggi e, successivamente, era diventato colui che contribuiva a scrivere le leggi di questo paese. Una persona con la schiena dritta, che aveva un altissimo senso dello Stato e che, quando incontrò Napolitano, divenne ancora più importante, ancora più ingranaggio fondamentale dello Stato, divenne suo consigliere, anzi, Napolitano lo nominò Consigliere del Presidente con un mandato più ampio con gli affari giustizia in generale. Era il raccordo tra il Presidente della Repubblica e il CSM e, più in precisamente, afferma ancora Napolitano “seguiva le vicende dell’Amministrazione della Giustizia, le vicende dei disegni di legge che avessero stretta attinenza con la materia dell’amministrazione della Giustizia”. Loris D’Ambrosio era il raccordo fondamentale tra il presidente della Repubblica e le istituzioni, era un suo fidato consigliere, rappresentava, davvero, una delle punte più alte dello Stato.

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Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Perché ci occupiamo di questo, perché dei giudici di Palermo hanno ritenuto importante chiedere ad un presidente della repubblica la sua testimonianza su alcuni passaggi della storia della repubblica?
Perché Loris d’Ambrosio aveva paura in quanto erano state pubblicate delle intercettazioni telefoniche tra lui e il Senatore Mancino, allora vice presidente del CSM; paura perché aveva, forse, la consapevolezza che qualcuno, per conto dello Stato, aveva trattato con la mafia. Con i mafiosi. per D’Ambrosio tutto questo era inconcepibile, non era contemplato. Era, anzi, un alto tradimento. Da dove partiva D’Ambrosio? Da un punto, un punto diremmo oggi fondamentale: “Falcone muore perché c’era molta fretta nel farlo morire. Qualcuno sapeva che quello del 23 maggio 1992 poteva essere uno dei suoi ultimi viaggi a Palermo. Pochi lo sapevano. Un cerchio ristretto. Molto ristretto. Qualcuno, quindi, ha dei contatti, fin dal 1992 con la mafia, con Riina, con Brusca, qualcuno che veste l’abito dello Stato. Di questo ha paura Loris D’Ambrosio, di questo si contorce nei ricordi, di questo, probabilmente intende parlare e per questo comincia ad enucleare “ipotesi, solo ipotesi, di cui ho detto ad altri, quasi preso anche dal vivo timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”. Sono le parole del Dr. D’Ambrosio, sono un testamento pesante dove il presidente Napolitano è chiamato a dare una sua lettura da parte del PM Teresi. Il Presidente quella bozza, quelle parole che sarebbero poi confluite, come testimonianza nel libro della sorella del giudice Falcone, le aveva lette in anteprima e quella bozza informale rimarrà identica anche nella stesura finale. Quelle parole, quella passione, quel legame profondissimo con il Dr. Falcone, come ricorda nella deposizione il presidente Napolitano, è forte. fortissimo. Quelle parole potevano essere un rumore caldo, potevano camminare sull’onda dei ricordi ma, invece, ci raccontavano altro, ci dicono che lui si considerava un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi. Era un uomo di scienza D’Ambrosio e sapeva soppesare bene le parole e quindi, possiamo candidamente affermare che, seppure si trattasse di ipotesi, solo ipotesi, probabilmente vi erano stati indicibili accordi tra apparati dello Stato e il sistema mafioso.
Le parallele che convergono. Che probabilmente portano allo smantellamento delle sezioni di massima sicurezza dell’Asinara e di Pianosa e il successivo trasferimento dei boss detenuti in altri istituti penitenziari.
Oggi siamo in attesa di superare questi passaggi. Lo Stato non tratta, si dice a gran voce. Con la consapevolezza che, probabilmente, questo non è stato vero in passato e non lo è neppure oggi. Cosa rimane, dunque della trattativa tra Stato e Mafia?

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Totò Riina
Tutto, sembra ritornare.

Tutto sembra ripassare dentro un concetto apparentemente impossibile e coniato per altri motivi: le convergenze parallele. Fu Aldo Moro a utilizzare questo ossimoro originale. Nel suo caso, però, quelle convergenze non produssero nessun risultato e lui fu comunque ucciso. Nel caso della mafia, invece, quelle parallele da qualche parte e in qualche modo si sono probabilmente incontrate. La questione, allora, va riposta in termini politici e, nel caso della mafia, probabilmente, per dirla ancora con Pier Paolo Pasolini ci troviamo davanti ad un “vuoto di potere” ma non, come affermava il poeta “un vuoto di potere in sè” ma un vuoto di potere cercato e disegnato. E dentro quel vuoto convergono molte cose.

Chi è curioso può approfondire attraverso questi libri:

Pier Paolo Pasolini, scritti corsari, Garzanti editore
Leonardo Sciascia, L’affaire Moro, Sellerio
L’agenda rossa di Paolo Borsellino a cura di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza . chiare lettere
Giampaolo Cassitta, Il giorno di Moro, Fratelli frilli editore
Piero Casamassima, Il libro nero delle brigate rosse – Newton editore
AA.VV: l’Italia della P2 – Mondadori editore

68 Responses

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