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la vita del bracciante e la dignità.

la vita del bracciante e la dignità.

Bracciante è una parola antica. Quasi dimenticata in un mondo dove tutto scorre fluido e velocissimo. È lavoro manuale, gonfio di fatica e di sudore. Lontano dalle nostre città, dai nostri non luoghi quotidiani, dalla scuola dove ci sono i nostri figli pronti ad imparare come si diventa city manager, advisor, man fashion, promoter, printer. Nessuno ha davvero in mente cosa c’è dietro la parola bracciante. Neppure i politici. Soprattutto i politici abituati come sempre a parlare di globalizzazione, di assestamenti climatici, di opportunità sociali, di guardare il mondo in un certo modo e svolgendo lo sguardo a sinistra. Non si rendono conto che proprio a sinistra una volta c’erano gli operai e i braccianti. Era un lavoro duro e dignitoso. Era un lavoro legato alla terra e ai frutti che quelle zolle producevano. Essere braccianti non era una scelta ma era dunque una condizione, un sentimento, era l’appartenenza ad una classe: quella contadina. Ed era la classe dove moltissimi di noi sgambettavano felici nelle campagne e nei filari della vigna che erano dei nostri nonni, dei nostri padri e per semplicità sarebbero divenuti anche il nostro terreno. Innaffiare l’orto, aiutare a mietere il grano, – da bambino si portava l’acqua ai braccianti – raccogliere le angurie, inseguire le mucche ed accompagnarle nel recinto per la mungitura – lu vaccili – facevano parte di un’infanzia vissuta dolcemente, a contatto tra la terra e il sole. Essere bracciante è sempre stato un lavoro duro e con gli occhi da adolescente ho sempre pensato che quella era una condizione estrema e l’avvento dei macchinari, della tecnologia, avrebbe sicuramente risolto molti dei problemi di quella poetica ma bistrattata categoria. Per certe cose però le macchine non servono e potare la vigna o gli ulivi, per esempio, è necessario l’uso delle braccia umane. Lavoro che anche Paola Clemente faceva nella sua Puglia, tra il caldo terribile di un maledetto 13 luglio del 2015 dove morì stroncata da un infarto mentre lavorava all’acinellatura dell’uva nelle campagne di Andria. Morì per 27 euro al giorno. Morì perché qualcuno sfruttava lei e le altre lavoratrici che pagava tre euro all’ora ma sulla busta paga ne figuravano ben sette. Gli altri quattro euro li intascava il “caporale” personaggio odiosissimo e ancora presente nelle campagne del sud del nostro paese. Paola era una bracciante che doveva lavorare per vivere, costretta a sottostare a regole terribili e indegne di un paese civile. Era una dimenticata, come tanti altri, compresi quei ragazzi extracomunitari che tanto vogliamo cacciare da questo paese ma che costringiamo ai lavori più umili con paghe da fame. Nessuno ne parla perché è inutile fare la guerra con il caporale: semplicemente la perdi. Ed è dunque da considerare quasi eroico il marito di Paola che non ha voluto zittirsi, non ha voluto solo piangere la morte della moglie e ha denunciato, ha portato le prove davanti ad un Tribunale che lo ha ascoltato e ha rinviato a giudizio il presunto “caporale”. Lo ha fatto per restituire dignità a Paola, lo ha fatto per amore della terra. La politica, nel suo piccolo,  ha fatto la sua parte approvando una legge contro questi soprusi ma è davvero sconcertante che non bastino mai le leggi per poter affermare i propri diritti quotidianamente schiacciati da persone senza scrupoli. La parola bracciante è antica ed è poeticamente bellissima. Ricorda la terra, il sudore e la fatica e ricorda il ciclo della vita che grazie alla terra si forma e si riforma. Il mondo dimentica non solo i braccianti ma anche i nuovi sfruttati dei call-center, i ragazzi costretti a finti stage mal pagati. Il mondo si è evoluto ma non si sono eliminate le ingiustizie. Si sono solo modificate. Dovevamo partire dal lavoro e dai diritti e invece siamo ancora a lottare per la sopravvivenza.

20:45 , 24 Febbraio 2017 Commenti disabilitati su la vita del bracciante e la dignità.