
Un magistrato di sorveglianza, un giorno, quasi a bruciapelo, mi chiese:
“Ma questo detenuto, secondo lei, rientra dal permesso?”
Ero molto giovane, e ricordo che farfugliai qualcosa. Ovviamente, rimasi sul vago. “Lei me lo scriva che si fida. Che rientrerà dal permesso e non commetterà alcun reato.” Non scrissi nulla del genere.
Perché non potevo. E, soprattutto, perché non dovevo. Gli operatori penitenziari non sono indovini. Non tengono un banco di scommesse.
Si lavora con le persone. E le persone sono materia complessa, sfuggente, spesso indecifrabile. Il magistrato di sorveglianza deve decidere sulla base di elementi oggettivi: il comportamento in carcere, il passato precedente al reato, l’impatto sociale che può generare la concessione di un permesso premio o di una misura alternativa. Poi, certo, esistono altri fattori che possono far pendere la bilancia da una parte o dall’altra. Ma nessun magistrato, nessun operatore, può costruire un percorso trattamentale se le condizioni giuridiche non lo consentono.
Chi esce in permesso, chi lavora all’esterno, chi accede a una misura alternativa è in regola con quanto stabilito dall’ordinamento penitenziario.
E allora il problema non è qui. Invocare ispezioni a effetto, agitare lo spettro del capro espiatorio, non serve a nulla.
Nel carcere di Bollate, per esempio, su 1.380 detenuti, solo 200 escono ogni giorno per lavorare all’esterno. E può succedere — è già successo e succederà ancora — che qualcuno fugga o commetta un reato. Fa parte delle regole del gioco.
La verità è che la maggioranza delle persone che sconta una pena in Italia lo fa fuori dal carcere: circa 60.000 persone sono attualmente in regime di misura alternativa.
E non possiamo colpevolizzarle tutte per l’errore di un singolo. Sarebbe come ritirare la patente a tutti gli automobilisti perché uno ha bruciato un semaforo rosso e ha travolto qualcuno.
Capisco bene che questo percorso sia difficile. È una strada sterrata, faticosa. Ma lo ribadisco con forza: il carcere non risolve i problemi.
Serve, al massimo, a tranquillizzare le coscienze. È la risposta più semplice, ma non è quella giusta. E nemmeno quella efficace.
Ci troviamo davanti a un ordinamento penitenziario che ha appena compiuto cinquant’anni. E se dovessimo fare un bilancio, io sono convinto che il principio dell’umanizzazione della pena, del trattare il detenuto come persona, ha funzionato. E continuerà a funzionare.
Ci saranno errori. Ci saranno ricadute, paure, critiche.
Ma, credetemi, ne è valsa la pena.
Questo articolo è stato scritto il martedì, Maggio 13th, 2025 at 18:28
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Tags: carcere, detenzione
Posted in: Blog, le ragioni di Caino