
Ciò che è accaduto nel carcere di Prato dimostra, se ancora ce ne fosse bisogno, che il problema della sicurezza penitenziaria è grave e va affrontato in modo radicalmente diverso da quanto si è fatto finora. Decine di cellulari e smartwatch sono finiti nelle mani dei detenuti del circuito di Alta Sicurezza; non solo: scene di violenze e abusi sono state persino trasmesse in diretta su TikTok, in una sorta di spettacolarizzazione criminale che lascia sgomenti.
Il procuratore che coordina l’inchiesta ha parlato senza mezzi termini: la struttura sarebbe caratterizzata da un “pervasivo tasso di illegalità”, da una “mancanza di controlli” e, cosa ancora più grave, da “comportamenti collusivi di esponenti della polizia penitenziaria”.
Sarà la giustizia a fare piena luce su quanto avvenuto tra quelle mura, ma un punto è già chiaro: l’uso dei telefoni cellulari nelle carceri è un problema strutturale, trasversale e irrisolto.
I telefoni cellulari, che dovrebbero restare fuori dai penitenziari, circolano invece come merce preziosa. Vengono nascosti nei materassi, nei muri, introdotti nei pacchi o — in certi casi — passano grazie a complicità interne. È una realtà nota da anni, ma ancora affrontata in modo frammentario e poco incisivo.
Eppure, oggi più che mai, impedire il funzionamento dei cellulari in carcere è una misura urgente, possibile e doverosa.
Un cellulare in mano a un detenuto non è solo un oggetto proibito: è uno strumento di potere. Serve a intimidire testimoni, coordinare traffici, impartire ordini, gestire estorsioni o perfino a dirigere omicidi. Tutto questo eludendo i controlli, trasformando la cella in una centrale operativa.
Il rischio, a quel punto, non è solo penale: è sociale, istituzionale, democratico. Uno Stato che non riesce a controllare cosa accade dietro le sue sbarre si indebolisce agli occhi della collettività, e invia un messaggio devastante: la legge vale solo fino a un certo punto.
Nel mio articolo precedente [http://www.giampaolocassitta.it/telefonino/], mi domandavo se schermare i penitenziari fosse una via praticabile. Qualcuno ha chiesto: ma è davvero possibile impedire il funzionamento dei cellulari in carcere? La risposta è sì. E le soluzioni esistono già.
I cosiddetti jammer, per esempio, sono dispositivi che disturbano le frequenze dei cellulari. Se ben tarati, possono coprire aree precise (una sezione, un piano, una cella) senza interferire con il mondo esterno. Usati in molti Paesi, in Italia il loro impiego è limitato da una normativa rigida: serve autorizzazione ministeriale e una progettazione tecnica accurata. Ma la tecnologia è già disponibile.
Ci sono altri strumenti sofisticati (IMSI Catcher) che simulano celle telefoniche, agganciando i dispositivi presenti e localizzandoli. Sono costosi ma efficaci, già in uso in alcuni penitenziari europei. Vanno regolati con attenzione, ma rappresentano un potente strumento di contrasto.
Gabbie di Faraday, vernici schermanti, pannelli isolanti: tecnologie non invasive che bloccano fisicamente il segnale. Possono essere integrate nella progettazione di nuovi istituti o introdotte gradualmente negli edifici esistenti.
In alcuni Paesi esistono protocolli con le compagnie telefoniche per limitare o disattivare il segnale attorno alle carceri. In Italia, è tecnicamente possibile: ma serve una regia nazionale, un coordinamento, una scelta politica chiara. Non lo si può fare “a sentimento”.
Negli Stati Uniti i jammer sono utilizzati con successo in diverse carceri federali. In Francia si sperimenta una combinazione di disturbatori e intercettatori. In Spagna si punta sulla micro-localizzazione dei dispositivi. In Norvegia, si unisce l’alta tecnologia a un approccio trattamentale avanzato. L’Italia, come spesso accade, non è priva di strumenti, ma è in ritardo.
Bloccare i telefoni non significa “blindare” il carcere, ma riprenderne il controllo. Restituire dignità al personale, sicurezza ai detenuti, credibilità allo Stato. Significa impedire che il carcere sia al servizio della criminalità.
Ma per farlo serve:
- una legge chiara che consenta l’uso controllato della tecnologia;
- investimenti mirati in infrastrutture e formazione;
- una cabina di regia nazionale, che coinvolga Ministero, DAP, operatori telefonici e Autorità garante.
Non serve — anzi, sarebbe pericoloso — ricorrere a gruppi segreti di poliziotti infiltrati negli istituti. È una deriva da Stato autoritario che mina lo Stato di diritto e rischia di creare nuove zone grigie, nuove collusioni, nuove violenze.
La sicurezza penitenziaria si ottiene con la legalità, non con l’eccezione. Serve trasparenza, responsabilità, competenza. Non spettacolo, né retorica.
Un carcere dove i cellulari circolano liberamente non è un carcere “aperto”: è un carcere vulnerabile, dominato da chi ha più potere e più mezzi. Bloccare i telefoni vuol dire proteggere i più deboli, ristabilire il principio di uguaglianza, dare senso alla pena.
La tecnologia può aiutare. La politica deve decidere. E la società civile deve pretendere che dietro le sbarre non regnino né il silenzio né l’arbitrio, ma lo Stato di diritto.
Questo articolo è stato scritto il mercoledì, Luglio 9th, 2025 at 16:00
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Posted in: Blog, le ragioni di Caino