
Partiamo da un dato oggettivo: in molte carceri italiane alcuni detenuti riescono a utilizzare telefoni cellulari, introdotti all’interno delle celle attraverso canali non sempre facilmente identificabili. Questo evidenzia o una falla nel sistema di sicurezza, o una notevole abilità nell’eludere i dispositivi predisposti per prevenire tale emergenza. Perché di vera emergenza si tratta. Poter comunicare con i propri sodali, per un esponente di vertice della criminalità organizzata, è fondamentale: ricevere o impartire ordini significa incidere concretamente sugli equilibri criminali esterni.
Il problema è noto e più volte affrontato dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP). Eppure, nonostante l’abilità della polizia penitenziaria nel rinvenire dispositivi occultati in celle, cortili e altri angoli remoti, il fenomeno persiste. I familiari in visita vengono perquisiti con attenzione, soprattutto grazie ai metal detector, strumenti efficaci nel rilevare oggetti proibiti. Al termine dei colloqui, i detenuti sono sottoposti a controlli ulteriori. Queste prassi, rigorose e fondamentali, rappresentano un filtro importante e spesso dissuasivo. Ma non sufficiente.
All’interno degli istituti penitenziari accedono molte altre figure: personale civile, volontari, funzionari, cappellani, educatori, tutti soggetti alle medesime regole di sicurezza, incluso il divieto di introdurre telefoni. In sezioni particolarmente sensibili – come quelle soggette al regime del 41 bis – nemmeno i magistrati o i dirigenti possono portare con sé un cellulare.
Eppure, i telefoni continuano a comparire. Gli agenti penitenziari passano anch’essi attraverso il metal detector, ma in molti casi il dispositivo segnala la presenza di oggetti metallici legittimi (cintura d’ordinanza, placca, accessori di servizio). I colleghi addetti al controllo, conoscendo la situazione, comprendono che si tratta di allarmi ordinari. Nessuno intende avanzare accuse gratuite: è doveroso ricordare che, in alcune occasioni, sono stati sanzionati agenti, ma anche funzionari, volontari o religiosi per aver introdotto telefoni in cambio di denaro o favori. Sono episodi rari, ma reali. E, purtroppo, destinati a ripetersi.
Ora, la soluzione prospettata sembra essere quella di infiltrare agenti in incognito allo scopo di raccogliere informazioni, magari anche sull’introduzione di dispositivi proibiti. Si tratta, però, di un’idea che solleva più di una perplessità, sia sotto il profilo pratico che sotto quello giuridico. Invece di percorrere una strada tanto tortuosa e dai contorni opachi, perché non scegliere l’unico rimedio semplice, immediato ed efficace?
Da tempo, nel mio piccolo, avanzo una proposta che ritengo ragionevole e compatibile con le esigenze di sicurezza: schermare gli istituti penitenziari. Gli agenti possono utilizzare regolarmente i sistemi radio in dotazione; per le comunicazioni interne o di servizio, il telefono fisso è più che sufficiente. Eppure, l’idea viene sistematicamente respinta. Si dice che non si possano limitare i diritti degli operatori penitenziari, compreso quello di usare il cellulare. Mi permetto di dire che questa appare come una giustificazione fragile, più che una reale preoccupazione per la libertà individuale.
Schermare il carcere dovrebbe diventare una battaglia condivisa, prima di tutto dalle organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria, affinché chi lavora con sacrificio e dedizione non debba anche fare i conti con le falle di un sistema vulnerabile. Privare i detenuti della possibilità di comunicare illegalmente con l’esterno è una garanzia per tutti, compresi gli stessi operatori.
Non si parla solo di “capi” – che, nella maggior parte dei casi, sono sottoposti a regimi restrittivi severi – ma anche di altri soggetti, abili nel procurarsi telefoni e nel mantenere contatti illeciti con l’esterno. L’idea di creare un gruppo di agenti “spie” sembra appartenere più a una sceneggiatura da fiction che a una reale strategia di prevenzione. Il rischio è quello di smarrire lo spirito democratico che deve guidare il sistema penitenziario italiano.
Sarebbe auspicabile aprire un dibattito, ma si sa: nel nostro Paese il confronto sembra essere diventato un orpello. Un po’ come le conferenze stampa.
Questo articolo è stato scritto il martedì, Luglio 8th, 2025 at 22:21
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Tags: carcere, etica, giustizia, le ragioni di caino
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