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Stampa.

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Quando il rumore della polvere da sparo sventra le coscienze, tutti, in coro unanime, cominciano a dire che siamo giunti al limite, che “questo è troppo” e che si tratta di un attentato alla libertà di stampa.
Ciò che è accaduto a Sigfrido Ranucci riguarda però solo Ranucci, e mi trovo d’accordo (una delle pochissime volte, in verità) con Marco Travaglio. Non è, infatti, un attentato al giornalismo in sé, ma a chi, nel corso degli anni, è stato in prima linea a denunciare, porre domande e provare a dipanare molte questioni.

Si può non essere d’accordo con qualche eccesso o forzatura, ma il giornalismo di Ranucci – insieme alle inchieste di Diacona e alle analisi lucidissime di Saviano, tra gli esempi  -rappresenta un vessillo di libertà in un deserto di professionisti spesso silenziosi e poco propensi a rischiare la propria vita per un ideale.

Mi è parsa, in ogni caso, piuttosto pelosa la difesa di alcuni politici che, negli anni, hanno inveito con forza contro esponenti della stampa e che oggi, giusto per farsi notare, si trovano – solo per un attimo – dalla parte “normale” della storia, plaudendo alla libertà di stampa in un Paese che si colloca al 49º posto nel mondo, scendendo di tre gradini rispetto al 2024.

Perché, a questo punto, non ci poniamo la domanda principale?
L’analisi di Reporter senza frontiere è lapidaria e ci consegna un posto dopo moltissimi Paesi che noi, talvolta, guardiamo con ostentata superficialità. Trinidad e Tobago, per esempio, è al 19º posto, ed Estonia occupa il secondo gradino del podio.

Non rilasciate dichiarazioni contro gli attentati ai giornalisti se prima avete fatto di tutto per affossare la libertà di stampa e per creare un clima velenoso nei confronti di chi prova, con onestà, a svolgere uno dei mestieri più belli e difficili del mondo.
Abbiate il pudore di tacere. Almeno per qualche giorno.
Non è molto difficile per alcuni di voi che inneggiano alla libertà di stampa e poi si rifiutano di parlare con i giornalisti.