
De André diceva: “Quando si muore si muore soli”. Lo so bene. E so anche che quando si sceglie di morire quella solitudine diventa mostruosa.
E’ una scelta terribile, estrema, che taglia ogni legame rimasto. Chi decide di farlo, combatte una battaglia al buio, trovandosi padrone dell’unico finale che neppure la vita gli aveva concesso.
Lo ricordo bene, il mio primo incontro con il suicidio in carcere, nel 1995: un ragazzo fragile che aveva raccolto margherite per sua moglie, che distrattamente, sulla Cantiello, le teneva strette senza sapere cosa stesse per accadere nei corridoi opachi della cella, dove si consumava una tragedia indicibile, che lascia ferite più profondo di ogni muro anche tra gli operatori penitenziari.
In carcere la solitudine non è solo fisica, è un abisso che pochi riescono a scalfire. Spesso chi sembra più calmo è quello che si perde nel silenzio più cupo. Il suicidio è l’ultimo, disperato gesto di chi non ha più voce.
Vorrei si capisse che dietro ogni gesto di questo genere c’è una storia di dolore che non possiamo permetterci di ignorare, un mondo che ancora oggi resta buio per la società e per lo Stato che dovrebbe proteggere i suoi cittadini in carcere. Da quelle parti si continua a morire, quotidianamente, in silenzio, con poche righe sui giornali. Ecco, ad ogni suicidio in carcere si riapre un’antica ferita, e mi appaiono quelle braccia che stringono piccole margherite. Nel dolore silenzioso si cela una richiesta d’aiuto che appartiene a tutti noi. Nessuno escluso.