Ciao Jannik,
ammettilo: quella frase – “la Coppa Davis l’ho già vinta due volte” – è sbagliata.
Lo so, sei giovane e, a volte, troppe domande e troppa pressione possono portare a qualche scivolone. Capita a tutti: da Salvini a Borghi, da Meloni a Tajani, da Schlein a Landini. Puoi quindi considerarti in buona compagnia.
Però noi, che già facevamo fatica a considerarti italiano perché sei semplicemente perfetto – educato, carino, ordinato, tutto quello che, ammettiamolo, noi non siamo – ecco, quella frase per giustificare la tua rinuncia a giocare per l’Italia non ce la saremmo aspettata.
Il problema, caro Jannik, non è essere “patriottici” (anche perché, a dire il vero, non c’è molto da vantarsene, viste certe cose che succedono in questo Paese). Il problema è che noi avevamo delle aspettative su di te. Ti abbiamo difeso quando è uscita la storia del doping, ti siamo stati vicini perché, in effetti, non c’entravi nulla. E siamo stati, da subito, dalla tua parte. Anche quando sei stato male e ti sei ritirato.
Siamo stati con te perché hai sempre detto parole meravigliose, hai sempre sottolineato che le sconfitte fanno parte dello sport e che, soprattutto, il tennis non è la vita vera.
Ecco: questo amore immenso (che, per quanto mi riguarda, cresce ancora di più perché non hai neppure un tatuaggio, almeno visibile) era l’amore di un padre, di una madre, di un fratello, ma anche – ed è qui che c’è il problema – di un tifoso. Perché se vince Sinner siamo felici, ma se vince l’Italia, nel nostro piccolo, vinciamo anche noi.
Ti faccio una proposta: quella Coppa Davis, giocala. Si può anche perdere, ma – come dici sempre tu – dalle sconfitte si impara a vincere.
E quella frase, ti prego, rettificala. Altrimenti il prossimo anno non potrai tornare in Arabia, visto che quella esibizione ben retribuita l’hai “già vinta due volte”, come la Davis.
E poi, dammi retta, da anziano amante dello sport: non c’è due senza tre.
Nella vittoria e nella sconfitta.
Grazie comunque, Jannik. A prescindere, come suggeriva Totò.
