È comodo, quasi scontato, dire che la naja appartenga al repertorio dei ricordi sbiaditi del secolo scorso. Eppure l’Europa si rimette l’elmetto, e anche l’Italia – almeno nelle parole del ministro Crosetto – accarezza l’idea di riportare in vita la leva obbligatoria. Io quel servizio non l’ho fatto, tra rinvii di studio e un finale sollievo da sovrannumero, e non ho mai avvertito un vuoto, né una mancanza segreta da colmare.
Non mi hanno mai convinto quelle narrazioni un po’ stanche in cui il servizio militare veniva celebrato come rito formativo: ti forgia, ti irrobustisce, ti fa diventare uomo. Dietro c’era sempre il sottotesto filo maschilista: ora sei una mammoletta. Una caricatura sessista, nemmeno troppo intelligente. Io la mia formazione l’ho trovata altrove: nelle febbri di Pavese, nelle ferite aperte di Pasolini, nell’abisso inquieto di Dostoevskij. Alle fanfare patriottiche ho preferito la voce coinvolgente di De André, le ballate di De Gregori, le traiettorie oblique di Fossati. La guerra di Piero è stata il mio inno nazionale per anni, seguita da Generale e dal disertore, che sapevano costruire pentagrammi di pace.
La naja, per me, resta un’idea storta. Questa fretta di insegnare l’arte della guerra non mi pare un buon viatico per una società che dovrebbe invece affinare l’educazione affettiva, quella vera, che nasce dall’ascolto e dalla maturità emotiva. E invece il clima è rigido, muscolare, animato dalla diffidenza: sembra urgente correggere i giovani, accusati di essere tornati mammolette, come se servisse una forgiatura collettiva per farne uomini. E donne, allo stesso modo. Una deriva che puzza di poca empatia e molta demagogia, un crinale scivoloso imboccato con leggerezza.
Pensavamo di marciare verso la pace. A guardare bene il sentiero imboccato, temo che abbiamo clamorosamente sbagliato direzione.
