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Liberazione anticipata e non condono

Liberazione anticipata e non condono

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Mettiamoci d’accordo su ciò che spesso si finge di ignorare: amnistia e indulto non curano il male che attraversa le carceri italiane. Possono alleggerire per un istante la pressione dell’emergenza, ma non incidono sul midollo dei problemi, che si annidano in strutture logorate, organici insufficienti, tempi processuali interminabili, politiche penali incapaci di guardare oltre il breve periodo. Eppure, se la strada dell’amnistia e dell’indulto resta impraticabile – non solo per ragioni politiche ma anche per l’esigenza di evitare provvedimenti generalizzati sganciati dal merito individuale – non possiamo limitarci a contemplare l’impasse. Occorre tornare agli strumenti che già possediamo, quelli che il legislatore ha costruito per fare della pena un percorso e non un deposito.

Tra questi, la liberazione anticipata rimane la leva più immediata e verificabile. L’istituto, introdotto con la legge n. 663/1986, attribuisce 45 giorni di riduzione della pena per ogni semestre di detenzione decorso con partecipazione all’opera di rieducazione e assenza di rilievi disciplinari. Una proposta in discussione – presentata da Roberto Giachetti e altri parlamentari – mira a portare questa riduzione a 60 giorni. È un cambiamento minimo solo in apparenza: estendere il beneficio e riconoscerlo in via retroattiva libererebbe spazio nelle sezioni nel giro di poche settimane, senza ricorrere a scorciatoie collettive e senza premi a pioggia. La valutazione resterebbe comunque ancorata al comportamento del detenuto, alla serietà del suo percorso, alla coerenza dimostrata nel tempo.

Il nodo, tuttavia, non è solo normativo. È organizzativo. La liberazione anticipata è di competenza della magistratura di sorveglianza, già oggi gravata da carichi ingestibili: personale ridotto all’osso, istruttorie che si accumulano, uffici che funzionano grazie alla buona volontà di chi ci lavora. Immaginare una valanga di istanze aggiuntive significa prevedere un imbuto quasi inevitabile. Si aprirebbe la strada a una soluzione tecnica che meriterebbe attenzione: attribuire alle procure – che già determinano il fine pena – la possibilità di applicare d’ufficio la maggiorazione dei giorni spettanti per i semestri già valutati positivamente. Un meccanismo semplice nelle intenzioni, complesso nei calcoli, perché occorrerebbe sottrarre un mese per ogni anno in cui il detenuto ha già beneficiato dei 45 giorni. Chi ha scontato, per esempio,  cinque anni di reclusione potrebbe vedersi riconosciuti cinque mesi ulteriori. Per molti non basterebbero per varcare subito il cancello dell’istituto, ma segnerebbero un’apertura, un primo varco nel muro della stagnazione.

Da qui si potrebbe lavorare su un collegamento organico con le pene sostitutive, che la riforma Cartabia ha ampliato ma che restano ancora poco utilizzate. Molti dei detenuti che hanno mantenuto un comportamento esemplare, specie se dispongono di un lavoro o di un progetto verificabile, potrebbero accedere immediatamente a una misura non detentiva. Non per benevolenza, ma per coerenza con l’idea stessa di pena costituzionale.

Continuare a evocare amnistia e indulto, nell’attuale scenario politico, è un esercizio sterile. Il governo ha scelto una linea dichiaratamente carcerocentrica e non intravede alternative alla reclusione come strumento ordinario di risposta al reato. Ma la realtà oltrepassa le dichiarazioni: il sovraffollamento è endemico, la sofferenza quotidiana, le condizioni di vita in molti istituti non reggono più alcuna giustificazione. E ciò che ferisce maggiormente chi vive oltre le mura non è soltanto la compressione dello spazio o la mancanza di attività: è l’illusione, la promessa di un cambiamento che non arriva mai, l’attesa che si trasforma in sospensione del tempo.

Nel periodo natalizio questa attesa brucia di più. Forse anche per questo è il momento giusto per parlarne senza slogan, cercando soluzioni che non tradiscano né la ragione giuridica né la dignità delle persone coinvolte. La liberazione anticipata potenziata è una misura parziale, certo, ma è una strada concreta. E a volte, nel dibattito su carcere e pena, ciò che serve davvero è una strada che permetta almeno di iniziare a muoversi.