Chico Forti resta in carcere perché gli è stata negata la libertà condizionale, nonostante i più di 25 anni già trascorsi dietro le sbarre. Basta questo per scatenare la canea di tifosi ed “esperti” di giurisprudenza e di ordinamento penitenziario, prontissimi a lanciarsi in paragoni con l’immunità concessa a Ilaria Salis dal Parlamento europeo.
Non voglio unirmi al coro populista: sono due storie sociali e giuridiche completamente diverse. Non fosse altro perché il primo è stato condannato all’ergastolo per omicidio, con sentenza definitiva, mentre la seconda è solo imputata per un reato senza prove solide e che, in Italia, sarebbe punibile con pochi mesi di detenzione per lesioni.
Non voglio però sottrarmi all’analisi delle motivazioni che hanno portato il Tribunale di Sorveglianza a negare la libertà a Chicco Forti, partendo da un punto fondamentale: la liberazione condizionale (art. 176 c.p.) non fa parte dei benefici in senso stretto previsti dall’ordinamento penitenziario (affidamento, semidetenzione, semilibertà). È un istituto antico, previsto dal regio decreto n. 1938 del 1930, e richiede condizioni precise e inderogabili.
La prima: per i condannati all’ergastolo occorre aver scontato almeno 26 anni di pena. Chico Forti ne ha scontati oltre 25 negli Stati Uniti e uno in Italia. La concessione, però, è subordinata a due elementi: l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato e un comportamento tale da far ritenere certo il ravvedimento. Condizioni che, secondo la direzione del penitenziario e il Tribunale di Sorveglianza, non sarebbero state pienamente dimostrate.
Che significa? Partiamo dal ravvedimento, concetto giuridicamente complesso. Non si tratta di “pentimento” (che appartiene alla sfera intima e personale), ma di un percorso fatto di azioni concrete affinché il delitto commesso non si ripeta. Sul piano trattamentale significa un lavoro serio, lungo, graduale, durante la detenzione. L’avvocato di Forti ha sottolineato la sua buona condotta carceraria: è certamente un punto di partenza, ma non equivale automaticamente a ravvedimento. Altrimenti, anche i peggiori mafiosi dovrebbero beneficiarne, visto che in carcere spesso mantengono un comportamento irreprensibile.
È stata svolta un’analisi critica del reato? È stato avviato un confronto con la vittima o con i familiari? C’è stato un reale percorso di revisione interiore? E poi c’è la questione del risarcimento, previsto dall’art. 176 e ribadito dall’art. 185 c.p. Nel caso specifico emergono difficoltà tecniche dovute alle differenze tra ordinamento statunitense e italiano.
Nella mia esperienza in carcere ho visto molte richieste di liberazione condizionale. Ho sempre detto ai detenuti che era un’ultima possibilità, difficilissima da ottenere: senza tutti i requisiti, il Tribunale di Sorveglianza non avrebbe mai potuto concederla. In alternativa, restavano strade più percorribili come la semilibertà o il lavoro all’esterno, che non prevedono l’obbligo di risarcimento e consentono comunque un graduale reinserimento.
Se qualche “esperto” nazionale, internazionale o “supergalattico” è arrivato a leggere fin qui (ne dubito), penserà: “Allora tu sei di parte, perché Chico Forti è di destra e deve restare in carcere, mentre Ilaria Salis merita la libertà perché è comunista”. No. Mai – e ripeto, mai – ho chiesto a un detenuto la sua fede politica o religiosa. Al massimo ci si è scherzato sulla fede calcistica. Ma la detenzione e il percorso di ravvedimento sono cose tremendamente serie: non si possono liquidare con quattro parole scritte sulla tastiera.
Parliamo di carcere, di condanne, di vittime, di sofferenza. Di carne viva e di carne lacerata. Non è semplice, credetemi.
Io ritengo che Chico Forti meriti, nella maniera più assoluta, una seconda possibilità. Bisogna solo trovare la strada giusta in un cammino tortuoso e difficile. Sono convinto che ci riuscirà, e quel giorno sarà per me un bel giorno: significherà che il diritto e la ragione avranno vinto sulla superficialità e sull’illegittimità di certe discussioni veloci e strumentali.
La libertà è una parola bellissima e fragile. Bisogna saperla maneggiare con cura, imparare a viverla e riuscire a insegnarla a chi, troppo spesso, se ne riempie la bocca senza sapere davvero come usarla.
