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I sotterranei dell'orrore

I sotterranei dell’orrore

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IC’è un filo sottile che lega l’orrore di due femminicidi, quello di Cinzia Pinna e di Pamela Genini.
Un filo che conduce verso una sponda mai davvero esplorata, o comunque rimasta a lungo sotto traccia. Quel filo ha il colore della ricchezza, dell’opulenza, della spavalderia. È intrecciato con la tracotanza e con la convinzione di chi si crede onnipotente.

Gianluca Soncin ed Emanuele Ragnedda avevano in comune una vita agiata, da jet set: ville, auto di lusso, red carpet, elicotteri, successo. Tutto condito da cocaina, e da quella euforia tossica che confonde il privilegio con il diritto. Non sono delitti nati nelle periferie della vita, non vengono dal degrado urbano o da famiglie dove il patriarcato è un marchio antropologico. Qui il piano è un altro, e richiede di essere osservato da una prospettiva diversa: non solo criminologica, ma sociale e morale.

Cosa spinge questi “figli fortunati”, che tutto hanno e tutto potrebbero permettersi, a impugnare una pistola o un coltello? Cosa li porta a uccidere a sangue freddo, a infierire su una donna inerme, terrorizzata, consapevole del proprio destino?

Forse la certezza di essere al di sopra di tutto. La convinzione che nei loro diari non esista la parola “sconfitta”. Sono uomini ruvidi, anaffettivi, incapaci di mettersi in discussione. Nel loro mondo perfetto, la spavalderia, la tracotanza e il disprezzo verso le donne sono considerati normali, persino giusti.
“Io sono forte, dunque possiedo.” “Io sono ricco, dunque compro.” “Io sono uomo, dunque comando.”

Ma non è il patriarcato classico. O, almeno, non è solo questo. Non sono capi di clan né padri fondatori, non costruiscono né difendono un ordine: il potere, loro, l’hanno trovato pronto, servito su un vassoio d’argento. Non l’hanno conquistato: l’hanno ereditato. Il patriarca, nel suo mondo arcaico, governa, decide, comanda, ma riflette. I suoi gesti, per quanto discutibili, sono compiuti a difesa del proprio recinto sociale. Soncin e Ragnedda no. Non governano, non decidono. Comprano. Consumano. Sopravvivono. Usano la cocaina come motore dell’esistenza e l’eccesso come linguaggio quotidiano. Sono, in fondo, analfabeti della vita, incapaci di affrontarla, incapaci di affrontare sé stessi.

Uccidere, per loro, non è un gesto estremo. È un passaggio quasi “naturale”, una tappa della propria follia distruttiva.

Non basta, allora, chiedere leggi più dure, ergastoli, percorsi di formazione. Sono necessari, ma non bastano. Bisogna scavare nei luoghi dove tutto brilla: nei salotti lucidi, nelle ville con piscina, nei sorrisetti da copertina. Perché proprio lì si nascondono i sotterranei dell’orrore.

Soncin e Ragnedda vengono da quel nulla, da quella pochezza che si traveste da successo. Da quel modo subdolo di considerarsi “normali”. E noi, osservandoli, li abbiamo persino ammirati.

È tempo di affrontare la banalità dell’ostentazione. Di capire che la malavita – quella vera, quella morale – non vive solo nei bassifondi delle città. La malavita (nel senso di vita vissuta male) si annida anche dietro le luci abbaglianti, dietro le auto di lusso, dietro i mondi effimeri che fingono di essere reali.

Non limitiamoci alla condanna, alla pena, all’espiazione. Non commettiamo l’errore di archiviare questi delitti come figli del patriarcato. Siamo di fronte a qualcosa di diverso, di più profondo: una devianza travestita da normalità.
Sono assassini di donne, ma fino al giorno prima erano considerati modelli da imitare.
E non solo dai nostri figli.