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Francesco.

Francesco.

Lavare i piedi degli ultimi. Andare a visitarli e regalare parole di confronto. Pretendere che fossero i detenuti a presentare i doni, a Cagliari, durante l’offertorio. Essere ammirevole, autorevole tra chi ha sbagliato e ha gettato  la propria vita tra errori e disperazione. Trovarsi da quelle parti e domandarsi: “Perché loro e non io?”. Una domanda retorica che spiega migliaia di pagine di storia e di sociologia.

Poi, quel nome bellissimo, impegnativo, unico. Mica era facile chiamarsi Francesco e provare a disegnare, nelle strade impervie della quotidianità, qualcosa che restasse, un solco che tutti potessero notare.

Quelle parole dure, forti, contro la guerra, contro i padroni delle armi (loro si arricchiscono sulla pelle degli inermi). Quelle parole tra i bambini e la felicità. Quel chiedere, senza ottenere, di finirla, di smetterla. Quella voglia di trovare qualcosa tra le pieghe della disumanità.

Così ritorno alle sue mani, che si permettono di lavare i piedi di chi ha fango terribile raccolto tra le dita. Quelle mani decise ad accarezzare i detenuti, a sottolineare che c’è sempre un motivo per amare la vita, c’è sempre un motivo per raggomitolare la speranza tra le storie sbagliate.

Questo è stato Francesco.
Un uomo solido, forte, potente.
Vicino alle storture della vita.
Un uomo terribilmente solo.
Magnificamente solo.

Lavare i piedi degli ultimi è come una schiarita in un cielo plumbeo.
Lavare i piedi degli ultimi è un atto di bellezza infinita.
È il gesto dell’uomo, del papa, del giusto.