
La croce è un simbolo, una metafora, un punto della nostra vita che si accartoccia tra la miseria e la felicità.
La croce è sacrificio silenzioso, è senso del dovere, una poesia senza rima, un tramonto senza colori.
È sofferenza, onda che sbatte e ti fa male, è acqua che non passa, è meditazione.
Portarla non è semplice e nessuno dovrebbe obbligarci a farlo.
È un tratto di strada in salita in un giorno d’estate, un caracollare senza meta quando il sole balla e scompiglia le verità.
È dover zappare la terra riarsa, ascoltare l’urlo del disperato, respirare il sonno degli ingiusti.
Quella croce che si staglia davanti come monito, quel Calvario pasticciato, sudato, conquistato passo dopo passo, lacrima e silenzio, dolore e sforzo, amore che è perduto, bacio dimenticato, quella voglia incontenibile di gettarla oltre qualsiasi muro, verso un mare vaporoso e forte, nella segreta speranza che diventi zattera per qualcun altro.
Che significa quel rito della morte di un Dio che si è fatto uomo, che ha provato a discutere con le nostre infinite debolezze, con il nostro subdolo egoismo?
Che senso ha quella corona di spine, quello sguardo verso un alto che non risponde, verso un basso che non ti degna di uno sguardo?
Quella croce ha una piccola risposta, e la trovo nelle parole di Francesco quando ieri ha varcato il portone del carcere di Regina Coeli:
“Ogni volta che entro in certi luoghi mi chiedo sempre: perché loro e non io?”.
Abbracciamo la nostra croce, perché ce ne sono di più pesanti.
Noi siamo la nostra croce, noi siamo le nostre scelte.
Noi, con la nostra croce, non dobbiamo invidiare mai le strade degli altri.
Abituiamoci a camminare con la consapevolezza che non possiamo conoscere le scarpe del mondo. E non sappiamo neppure quando finirà la salita e, se dovessimo arrivare per primi, abbiamo il dovere – per gioia, per umanità, per amore – di aspettare gli altri.
E con le croci, con tutte le croci del mondo, dovremmo costruire una nuova arca che non abbandoni nessuno nel mare dell’indifferenza.