
Sembra una battuta da cabaret, e invece tocca prenderla sul serio. Le ambasciate statunitensi a Pechino e alcuni consolati in Cina hanno diramato un avviso ufficiale in cui si vietano incontri tra cittadini americani e cittadini cinesi, promuovendo quella che chiamano “non-fraternization”. Chi è già felicemente accoppiato in una relazione ufficiale si salva. Tutti gli altri, se beccati, rischiano il rimpatrio. Altro che appuntamento galante: biglietto di sola andata per casa.
Ora, a parte la tristezza per un avviso così grottesco, sono convinto che, almeno da noi in Italia – e su questo, diciamolo con orgoglio, siamo anni luce avanti rispetto al moralismo puritano a stelle e strisce – ce la saremmo fatta una risata colossale. Ma resta una domanda fondamentale: come fanno a scoprirlo? Schierano la CIA, l’FBI, i droni, i cani antidroga in versione romantica, o magari installano un Trojan a forma di cuore?
E poi: perché? La risposta ufficiale è “per motivi di sicurezza”. Che, tradotto, è una non-risposta. Un modo elegante per non affrontare il vero problema, che non è sociale, ma economico. Gli Stati Uniti sanno benissimo che in Cina si producono beni essenziali per il mondo intero, e sanno altrettanto bene che molte multinazionali americane hanno delocalizzato in massa proprio lì, per mille ragioni. Vietare la frequentazione degli “altri” – con un tono che sa di apartheid sentimentale – è una scelta antistorica, e anche piuttosto stupidina.
Mi ricorda certe usanze (un po’ razziste, diciamolo) in voga da noi qualche decennio fa, quando in alcune famiglie era proibito frequentare persone “di altri quartieri”. Salvo poi scoprire che nei salotti bene girava più cocaina che nelle periferie.
E allora, se nel 2025 qualcuno pretende ancora di dirci con chi possiamo uscire, chi possiamo abbracciare, di chi possiamo innamorarci e con chi possiamo fare l’amore… beh, siamo messi molto, ma molto male.
E i dazi, davvero, non c’entrano un bel niente.