Visitai, alla fine degli anni Novanta, un carcere a Erevan, in Armenia. In quell’istituto esistevano le cosiddette “stanze dell’amore”, dove il detenuto poteva trascorrere alcune ore con la sua compagna. Rimasi scosso dal grigiore della stanza, dai suppellettili tristi, dal grigio malinconico e da uno strano tepore che non era calore e non concedeva alcuna empatia. Sembrava un luogo pensato per consumare qualcosa di meccanico, distante dalla parola stessa “amore”. Eppure, per i detenuti armeni, rappresentava un punto di arrivo. La stanza veniva concessa a chi si comportava bene o, per esempio, a chi denunciava qualche nefandezza di un compagno di sventura. Rimasi colpito dalle parole del direttore, che parlava di quella concessione usando metafore appena velate sul “premio di una consumazione”.
In Italia, l’ordinamento penitenziario non prevedeva stanze dell’amore. Ma con la sentenza n. 10 del 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la parte dell’Ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), in particolare dell’articolo 18, che negava ai detenuti la possibilità di avere «colloqui intimi» con coniuge o convivente senza il “controllo a vista” del personale, quando non sussistono motivi di sicurezza o di ordine. La Corte ha stabilito, in poche parole, che l’ordinamento deve riconoscere e tutelare le relazioni affettive, anche nella sfera sessuale.
La dimensione riservata dei colloqui ha aperto una serie di discussioni, e ora, nel carcere di Torino, è stata inaugurata nel padiglione E, sezione Arcobaleno, una stanza di circa 15 metri quadrati, dotata di letto, bagno e doccia, pensata per consentire incontri “intimi” tra detenuti e partner — coniuge, convivente o persona unita civilmente. Il primo appuntamento è stato fissato a inizio dicembre 2025: due detenuti, rispettivamente di 41 e 46 anni, hanno prenotato il loro colloquio nella stanza dell’affettività.
Gli incontri sono regolamentati: durata predeterminata (un’ora), prenotazione obbligatoria, divieto di trasformare colloqui ordinari in “intimi”, esclusione dei detenuti in regime di massima sicurezza (41‑bis), isolamento sanitario o coinvolgimento in reati gravi o precedenti violazioni disciplinari.
Credo sia un passo nuovo, a tratti rivoluzionario, e sicuramente positivo, perché parte dal presupposto che il diritto all’affettività appartiene non solo al detenuto, ma anche al partner estraneo al reato. Non vorrei, però, che tutto si riducesse a una questione di costume o a una banale rivalsa sul tempo libero: il carcere resta un luogo di estrema sofferenza, giusto per chi deve espiare la pena, ma non può calpestare la dignità né distruggere gli affetti. Per chi non può ottenere permessi premio, un incontro nella stanza dell’affettività può diventare un punto di partenza, un orizzonte che si ridisegna.
Spero solo che, all’interno di quella stanza, ci siano suppellettili meno tristi di quelle che avevo visto a Erevan e che un abbraccio, un bacio, un’ora d’amore possano avere gli stessi colori della libertà.
