Chissà come ci siamo trovati a parlare di operai. E mentre la discussione si animava, dovuta anche alla crisi dell’Ilva, che si aggrava con l’aumento del ricorso alla cassa integrazione da 4.500 a 5.700 unità, io ascoltavo. In silenzio. Quel silenzio rumoroso che mi riportava alla fine degli anni Settanta, quando noi studenti aprivamo gli scioperi insieme agli operai.
Quando quella parola era sinonimo di dignità, lavoro, forza contrattuale, sindacato, impegno. Quando quella parola esisteva.
Ecco, ero in silenzio perché da anni non frequento più operai, e non li frequento perché, in effetti, non ci sono più. Ne ricordo uno: si chiamava Velio, lavorava come elettricista all’Asinara, all’inizio degli anni Novanta. Aveva gli occhi da operaio, il portamento, il sorriso sghembo, le parole da operaio. Morì in un incidente stradale mentre rientrava un fine settimana al suo paese.
Velio – un nome bellissimo, per giunta – è il ricordo puro, forte, ultimo che ho dell’operaio. Poi ho pensato a Pasolini e al suo articolo sulla “scomparsa delle lucciole”. Quel silenzio si è riempito di malinconia, di tristezza vera, di qualcosa che non c’è più.
Le lucciole sono scomparse, e con loro anche gli operai. Si parla di salario minimo, ma a farlo sono i parlamentari o i burocrati dell’Europa. Pensate se a lottare per il salario ci fossero ancora gli operai: quelli docili e intransigenti, con la faccia da operaio, la forza da operaio, la musica da operaio, quelli che chiamavano compagno Enrico Berlinguer.
Ecco. Quelli lì.
Questo articolo è stato scritto il martedì, Novembre 11th, 2025 at 20:27
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