C’è questo strano modo di volersi sovrapporre a chi muore, quasi a voler anteporre la propria figura a quella dello scomparso o della scomparsa di turno. Quel voler dire a tutti i costi di averlo conosciuto, incontrato, magari di essersi fatto un selfie con lui.
Ho scoperto, davvero, che c’è gente che scatta foto con personaggi famosi per poi postarle quando quella persona viene a mancare: eravamo amici, conoscenti, quasi parenti. Come se fosse la cosa più importante e necessaria.
Un rumore mediatico che, davvero, comincia a essere stucchevole. Questo voler parlare di un lui o di una lei e finire, inevitabilmente, per parlare di se stessi: lo conoscevo, era bravo, avevamo pranzato insieme, ci eravamo confidati molti segreti, amava il mio cane, il mio libro, mi aveva dato suggerimenti per migliorare la “mia” carriera.
E, in lontananza, appare colui o colei che non c’è più e che, ovviamente, non può replicare.
Accade sempre.
Oggi accade con Peppe Vessicchio, il maestro napoletano che divenne famoso per il suo pizzo più che per la sua musica. Pur essendo un ottimo musicista, tutti lo ricordano per quella frase: “dirige l’orchestra Peppe Vessicchio”, celebre quasi quanto “perché Sanremo è Sanremo”.
Rimango fuori dal coro. Non ho conosciuto Vessicchio, non ho fotografie con lui, né aneddoti da raccontare. Nulla che riporti al mio ego. Nulla.
Ho imparato, negli anni, quanto è bello il mestiere di cronista: raccontare le storie senza mai apparire.
E invece, continuamente, leggo racconti in cui i protagonisti sono i giornalisti, gli scrittori, gli amici e mai i veri personaggi.
Comincio a non poterne più di questa autobiografia spalmata sul mondo.
Parliamo degli altri e lasciamo perdere noi stessi. Fa bene al cuore, e fa bene a chi legge. Fidatevi.
