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Referendum: perché voto no

Referendum: perché voto no

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Siamo appena all’inizio e avremo modo di discutere e dibattere sulla separazione delle carriere dei magistrati. La riforma costituzionale ci accompagnerà per i prossimi mesi e, statene certi, ci saranno scontri tra gli opposti schieramenti. Personalmente – lo dico subito, per sgombrare il campo da equivoci – la riforma non mi convince e voterò no.

Non voglio però ridurre tutto a una diaspora tra curva sud e curva nord: non mi sembrerebbe neppure giusto. Nicola Gratteri in questi giorni ha detto una cosa semplice e illuminante: è inutile che nei dibattiti o nei convegni professori, costituzionalisti, giuristi e magistrati si parlino tra loro con un linguaggio tecnico che, per quanto aulico e interessante, non arriva alle persone. Ecco, questo concetto dovrebbe portarci a chiederci davvero se esista una coscienza vera, preparata e chiara su ciò che andremo a votare. Se votare sì significherà, per esempio, risolvere i problemi della giustizia oppure se votare no servirà invece a mantenere lo status quo.

In questi giorni è stato riesumato Silvio Berlusconi come padre nobile di questa riforma. Che un uomo giudicato e condannato, affidato in prova ai servizi sociali, possa essere il baluardo di una riforma costituzionale lascia comunque perplessi. Ci sono state mille storture all’interno della giustizia italiana e, paradossalmente, sono state commesse mille ingiustizie soprattutto prima della riforma Vassalli, quando il PM aveva davvero un potere quasi illimitato. Ma affermare che dividendo le carriere si risolva la questione delle ingiustizie nella giustizia è sbagliato ed è un ragionamento in totale malafede.

Le ragioni del no, almeno per me, sono abbastanza chiare. Prima di tutto, la riforma non affronta i problemi veri: i processi lenti, gli organici insufficienti, le carenze di mezzi e di personale. Separare le carriere non farà arrivare prima una sentenza, né migliorerà la qualità della giustizia. Lo ha detto anche il Consiglio Superiore della Magistratura nel suo parere: il passaggio dei magistrati da giudicanti a requirenti è ormai rarissimo; quindi, non quello il nodo del problema.

C’è poi una questione più profonda: dividere rigidamente le carriere rischia di indebolire l’indipendenza del pubblico ministero, che potrebbe trovarsi più esposto a pressioni politiche o al potere esecutivo. In questo modo si rompe l’unità della magistratura, che è sempre stata una garanzia per tutti noi cittadini. Alcuni costituzionalisti ricordano, giustamente, che la Costituzione non impone una separazione così rigida: vuole un ordine autonomo e indipendente, non due corpi separati e potenzialmente in conflitto.

E infine c’è un tema di metodo. Una riforma che tocca un punto così delicato della nostra democrazia dovrebbe nascere da un confronto vero, largo, partecipato, non da una spinta di parte o da uno slogan. Perché la giustizia non è uno stadio, né un derby tra tifoserie.

Voterò no, ma sono disposto ad ascoltare le ragioni del sì, quelle autentiche, non quelle di propaganda. Sono anziano, ho quarant’anni di esperienza all’interno del Ministero della Giustizia e qualcosa credo di averla capita. Proviamo, quindi, a imbastire un dibattito serio, sul merito e non con semplici slogan che invitano a votare sì o no. Tutto troppo facile: la giustizia, invece, è un tema molto complesso. Ragioniamoci.