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Tra lavoro e armi.

Tra lavoro e armi.

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Scegliere tra il lavoro e le armi non è mai semplice. Eppure, in Sardegna, questa scelta oggi si presenta con tutta la sua forza: entro il 17 dicembre la Regione dovrà pronunciarsi sulla richiesta di ampliamento dello stabilimento RWM, la fabbrica di Domusnovas dove si producono munizioni, esplosivi industriali e componenti per droni armati.

La decisione è formalmente tecnica – un parere motivato all’interno della Valutazione di Impatto Ambientale – ma le sue conseguenze sono sociali, politiche, etiche. Perché dietro la sigla “RWM” non c’è solo un impianto produttivo: ci sono centinaia di lavoratori, un territorio fragile e un dilemma antico quanto la guerra stessa.

La sindaca di Domusnovas lo ha detto con chiarezza: fermare la fabbrica significherebbe colpire decine di famiglie. È vero. Ma è altrettanto vero che, continuando così, si rafforza un modello economico basato sull’esportazione della morte. E dire “qualcuno lo deve pur fare” è una giustificazione comoda, che non risolve nulla.

Secondo i dati ISTAT (Rapporto Sardegna 2024), la regione presenta ancora tassi di disoccupazione tra i più alti d’Italia: quasi il 14%, con punte del 40% tra i giovani nel Sud-Ovest. Domusnovas, Iglesias e i centri dell’ex Sulcis rappresentano un microcosmo di questa precarietà. In territori dove la grande industria ha fallito – miniere, metallurgia, energia – ogni posto di lavoro è prezioso. Ma la dipendenza da un unico soggetto produttivo rende la comunità vulnerabile e priva di autonomia economica.

Nel linguaggio dell’economia si parla di “monocoltura industriale”: quando un’intera area vive grazie a una sola impresa. E se quella impresa produce armi, la dipendenza assume un valore simbolico ancora più pesante.

In Italia abbiamo inventato un antidoto formale per ogni crisi: il “tavolo”. Quando non si sa cosa fare, si fa un tavolo. Ma i tavoli, da soli, non salvano né i posti né le coscienze. Ne sono stati convocati per l’Alcoa, per Portovesme, per Ottana. Tavoli che spesso si sono chiusi con una firma e nessuna soluzione.

La riconversione della RWM, invece, richiede un piano concreto: una roadmap industriale e sociale. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT), insieme a Invitalia, dispone già di strumenti per le aree di crisi industriale complessa (Legge 181/1989). L’accesso a questi fondi consentirebbe di finanziare nuovi investimenti, politiche attive del lavoro e programmi di formazione per i dipendenti.

Le esperienze di PiombinoTerni e Taranto insegnano che la riconversione non è un sogno: è una scelta, purché sostenuta da una strategia chiara e partecipata.

L’Italia, con la Legge 185/1990, regola l’esportazione di armamenti e vieta la vendita a Paesi coinvolti in conflitti armati o che violano i diritti umani. Tuttavia, come ricordano i rapporti dell’UAMA (Unità per le Autorizzazioni dei Materiali d’Armamento del Ministero degli Esteri), deroghe e triangolazioni sono frequenti.

Ecco perché un disarmo unilaterale locale, simbolico ma concreto, può avere valore politico: la Sardegna — terra di servitù militari, di poligoni, di esperimenti bellici — può scegliere di dire basta. Non per moralismo, ma per coerenza.

Significherebbe chiedere che le armi prodotte a Domusnovas non vengano destinate a Stati in guerra attiva, e che l’impianto avvii gradualmente una riconversione civile: materiali per la sicurezza, esplosivi per uso minerario, tecnologie di precisione per il settore energetico o ambientale. Soluzioni realistiche, già sperimentate altrove.

Le risorse ci sono. I fondi europei del Just Transition Fund e del PNRR destinati alla transizione ecologica e industriale possono finanziare piani di riconversione per territori a rischio. La Regione Sardegna, secondo la sua ultima strategia di sviluppo territoriale, individua proprio l’area del Sulcis-Iglesiente come prioritaria per la diversificazione produttiva e la valorizzazione di competenze tecniche locali.

Non è un’utopia. È una possibilità concreta, se la politica decide di investirvi.
Le maestranze di RWM possiedono competenze preziose: metallurgia di precisione, elettronica, meccanica fine. Con una formazione mirata, potrebbero passare dal produrre ordigni al costruire tecnologie per l’energia rinnovabile, per la sicurezza civile, per la protezione ambientale.

Lo stesso Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica, in un documento del 2024, invita le Regioni a promuovere “progetti di riconversione sostenibile nelle aree ad alta intensità industriale con rischio ambientale”. È la strada giusta: meno polvere da sparo, più innovazione.

Non possiamo chiedere a un operaio di scegliere tra il pane e la coscienza. Possiamo, però, chiedere alla politica di creare alternative reali.
Perché un’economia fondata sulla produzione di armi non è un’economia di pace.
E perché la pace – anche quella economica – si costruisce con scelte coraggiose, non con tavoli senza fine.

Non esistono soluzioni facili, ma esiste una direzione: smettere di costruire morte e iniziare a costruire futuro.
Domusnovas può diventare il simbolo di un’altra Sardegna: quella che sceglie la riconversione, l’innovazione, la dignità del lavoro.

Non serve un altro tavolo. Serve una decisione.