
Se vogliamo partire dai coltelli, dalle sfide, dalle strane possibilità che si intrecciano nelle vite degli adolescenti, allora dovremmo scomodare la letteratura. Ma non è questo il caso.
La disputa tra giovani di Sorso e Sennori sembra qualcosa di diverso: non è una cavalleria rusticana, non ha il sapore dell’onore.
È, più prosaicamente, una disfida tra solitudini.
Ragazzi senza più parole in tasca, che non trovano altro modo per mostrarsi.
Non lo fanno per difendere l’onore, né per rabbia, né per amore (sarebbe quasi bello pensare a un duello tra spasimanti… ma siamo fuori tempo massimo).
Si mostrano nella loro completa nudità. Non hanno altri strumenti per esistere se non i social.
Vogliono filmarsi, raccontarsi, almeno per un attimo, attraverso le loro malefatte.
È qualcosa di febbrilmente nuovo: una lotta tra anime vuote, dove nel trambusto del vuoto interiore compare il desiderio di essere il più forte, il più visibile.
La droga, l’alcol, i social, la pochezza culturale stanno riscrivendo i codici di una generazione che non protesta più, che non prende posizione.
Solo un tintinnio di coltelli bagnati di birra. E nient’altro.
Archiviare tutto come “una bega tra ragazzi”, come “cose che sono sempre successe”, significa non voler comprendere la nudità di queste generazioni: inermi, fragili, disarmate davanti a un mondo sempre più chiuso.
Gli accoltellamenti non sono una resa dei conti tra bande, non sono nemmeno un perimetro sociale abitato da tutti.
Non tutti i ragazzi di Sorso o di Sennori girano con il coltello in tasca.
E non è nemmeno un retaggio culturale (basta con questa stanca narrazione del sardo e della leppa).
Proviamo a chiederci perché siamo arrivati a questo punto.
Avere un coltello in tasca oggi non è un segno di forza.
È il racconto di una debolezza terribile.
Di una incapacità di sopravvivere.
Pensiamoci.