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25 aprile.

25 aprile.

A parte alcuni strafalcioni (Tajani: «Oggi è la festa del Tricolore»), qualche piccola ammissione (Meloni: «La Nazione onora la sua ritrovata libertà e riafferma la centralità di quei valori democratici che il regime fascista aveva negato»), e pasticci fuori tema (Salvini: «Il federalismo garantirà nel futuro assetto europeo una pace stabile e duratura»), è arrivato – per fortuna – Sergio Mattarella a catechizzare un po’ tutti  (perché ce n’è ancora bisogno) sul significato del 25 aprile.
Il Capo dello Stato ha ricordato, tra le altre cose, che la rivolta al fascismo (dice proprio “rivolta al fascismo”) partì dal basso:
«Con la libera Repubblica di Pigna e di Triora nell’Imperiese, di Torriglia nel Genovese, della Repubblica del Vara in Alta Val di Vara nello Spezzino, emerge la dimostrazione dell’estraneità tra regime e popolazioni. Questo si manifestava nelle vallate, e trovava conferma nelle città, dalle quali migliaia di donne e uomini vennero ignobilmente avviati al lavoro coatto in Germania, alla deportazione verso il lager di Mauthausen.
E la fabbrica, le fabbriche, si manifestarono, una volta di più, luoghi di solidarietà, scuole di democrazia, con la crescita di coscienza sindacale e la costituzione delle squadre di difesa operaia».
Mi è piaciuto molto questo voler ricordare gli operai, da parte del Presidente della Repubblica.
Mi è piaciuto molto che quella bellissima rivoluzione (altro che sobrietà) sia nata dalla consapevolezza delle popolazioni. Di chi, di solito, non ha voce.
Ecco, davanti a queste parole posso solo essere orgoglioso di essere rappresentato da un uomo come Sergio Mattarella: giusto tra i giusti, verticale e immenso uomo di Stato.
Ad imparare, mi auguro, c’è sempre tempo. E chi non si dichiara apertamente antifascista, dietro la lavagna.