
Lo ammetto, il treno è sempre stato il mezzo di trasporto dei miei sogni. Mi è sempre piaciuto quel suo strano odore, che esiste in tutte le carrozze del mondo: quelle poltrone, i finestrini da cui è vietato gettare oggetti, il bagno che, nei vecchi vagoni italiani, si chiamava “ritirata”; gli alberi che inseguono i sogni; il poter camminare nei corridoi e trovare tra i passeggeri anche l’inizio di un amore.
Viaggiavo, a quei tempi, nella carrozza fumatori e aggiungevo odore di fumo a quello di treno, un olezzo oggi impensabile. Ho preso qualche volta il Frecciarossa e, per quanto comodo e veloce, non ha più le stigmate del viaggio avventuroso. Non ha più il rumore del treno che scorre sui binari, non ci sono più le ritirate, i vagoni per fumatori, gli scomparti a sei posti con le tendine. Viaggiare è diventato semplicemente “spostarsi” e, credetemi, non è la stessa cosa.
Quell’andare lento era un processo quasi poetico. Si arrivava dopo ore, dopo aver assaporato il tempo e mangiato uno stopposo panino acquistato dal finestrino durante la fermata in qualche stazione infame. Viaggiare era costruire un evento, raccogliere i cocci di una storia. Era immaginare.
Questo deve aver pensato il nostro Ministro alle Infrastrutture e ai Trasporti: restituire agli italiani la straordinaria bellezza della lentezza, aggiungendo anche ore d’attesa nelle stazioni. E noi, che non siamo d’accordo, non avevamo capito che il vero radical chic, stupendamente snob, è lui: Matteo Salvini.
Siamo dei dilettanti. Diciamolo.