
La parola di oggi è Napoli. Come Eduardo, Troisi, Maradona e tanti altri. Ma, soprattutto, come Pino Daniele. Era il 4 gennaio 2015 quando Pino fu colto da un infarto in Toscana, lontano da Napoli. Ci ha lasciato a 60 anni, che sembrano pochi, ma poi ti volti a guardarli e non li vedi più.
Pino è stato la colonna sonora di un’intera generazione: la mia. Da Napule è a Terra mia, da Je sto vicino a te a Donna Cuncetta, passando per Putesse essere allero e la favolosa Apocundria, che regala l’essenza vera della napoletanità.
Napoli, in fondo, è un’eterna contraddizione: dall’amore al sangue, dalla bellezza alla “munnezza”, dalla passione al cinismo, dall’invettiva al menefreghismo. Difficile raccontare Napoli, ed è, paradossalmente, impossibile cantarla. Perché, a volte, non bastano le parole e i suoni per dipingere una città poliedrica, femmina e maschia, povera e ricca, musicante e silente, colorata e confusa.
Napoli è la virgola all’interno di una pagina costruita con iperboli, è un colpo di pennello in un vacuo acquerello, è Leopardi e Van Gogh, è la mano di Dio e il peccato, San Gennaro e Maradona.
Pino Daniele ha cantato e suonato tutto questo. Ha disegnato il mare e la disperazione, il sole e la speranza. È stato tutto ed è stato niente. Come Napoli. Pino, nella sua grandissima rappresentazione terrena, è stato un lazzaro felice, resuscitato molte volte e, in fondo, mai morto per davvero.
Come Napoli: mai definitiva, mai del tutto chiara, mai decisa. Nera a metà.
Ciao Pino. Ci manchi. Davvero.