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intervista rilasciata a

intervista rilasciata a “citoplasma” 4/11/2008

E’ una intervista ad uno scrittore e siamo un po’ emozionati. E’ la nostra prima intervista ad un personaggio già noto. Di solito prima li intervistiamo e poi diventano famosi
CITOPLASMA: “Dunque, Giampaolo Cassitta, prima di cominciare ti chiediamo: farai causa alla Microsoft? Mentre digitiamo questa intervista, il correttore automatico di Word corregge il tuo nome in “Cassetta” e, nell’ordine propone in alternativa “Bassetta”, Bassotta”, “Gassista” e infine “Lassista”! Volevamo iniziare da una domanda esistenzialista: un tempo, quando si conosceva una nuova persona, quella si presentava dicendo per esempio “Sono un insegnante”, o “Sono un operaio”. Oggi quasi nessuno si riconosce così pienamente in quello che fa e si presenta con “Faccio l’insegnante”, “Faccio l’operaio”, etc.
Giampaolo Cassitta, come si presenterebbe?”
CASSITTA: “Ho avuto, come mio capo del Dipartimento il Dr. Tinebra e nei primi giorni dal suo insediamento pensammo che era cosa buona e giusta rivolgergli, come Direzione di Istituto gli auguri di buon lavoro. Se la prese decisamente “a male” in quanto gli auguri – per colpa di Bill Gates – arrivarono al Dr. Tenebra. Questa piccola incisione serve per sorridere sul maledetto/benedetto correttore automatico di Word. Sono arrivato ad un punto molto semplice: disattivarlo. Si fanno meno errori. In ogni caso il mio cognome – di origine esclusivamente sarda – ha diverse interpretazioni. La prima può essere quella di Bill Gates, ovvero “cassetta” ma è semplicistica. E’ probabile, invece che fosse il nome di una tribù (si pensa i Cassiti) che emigrarono in Sardegna dalla Mesopotamia. Chissà. In ogni caso mi tengo la mia sardità e la mia mediterraneità da molte generazioni.
Il problema della presentazione dipende sempre dall’habitus dell’occasione. Sarei uno sciocco se ad una riunione al Dipartimento mi presentassi come scrittore: dico semplicemente “Sono il Dirigente dell’ufficio detenuti e trattamento del Prap di Cagliari”. Quello che mi piace dire è sicuramente “sono uno scrittore” o forse, come si dice del detenuto che in carcere si occupa di aiutare gli altri compagni a comporre istanze, sono uno scrivano.
E’ bello poter pensare che scrivere sia un atto non esclusivamente egoistico (e lo è, tantissimo) ma anche e soprattutto un atto con cui si comunica e, essendo scrivani, si attende anche cosa si voglia comunicare. Ecco, mi piacerebbe poter dire, un giorno, sono uno scrivano.”

Nei tuoi libri c’è sempre della musica. In che percentuale la colonna sonora ha importanza nella tua vita?
La musica è vita. Dentro le canzoni, le parole, gli accordi c’è scandito il tempo delle mie emozioni, dei miei ricordi, dei miei scazzi. Penso che fin da piccolo ho unito la musica ai fatti della mia esistenza e per ogni attimo c’è sempre una canzone, un’aria, una strofa che mi riporta dentro tutto il mio cammino che è, di fatto un lungo pentagramma con dentro molte curve (oppure discese ardite e risalite…)

Dicci almeno tre colonne sonore di film che ricordi con particolare piacere o interesse.
Sicuramente Per un pugno di dollari, la musica che racconta la mia adolescenza, quando fin da piccolo amavo Tex Willer e le sue gesta con la piccola propensione ad interessarmi anche dei “cattivi”. Non disdegno le musiche di “Giù la testa”, anche questa una colonna sublime, che mi ricorda la revolucion, il gusto dell’azzardo, del far “saltare il ponte” l’esserci. Poi il “Postino”. Grande film e grande colonna sonora con il mio grande attore Massimo Troisi. Ma la musica più bella è quella di “Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto.” Quando la sento o rivedo, di tanto in tanto spezzoni di quel film, (penso di averlo visto ormai tredici volte) ritorno alle mie scelte adolescenziali: ecco, quel film ha significato molto per me, per le mie decisioni future, per l’impegno e per la voglia incontaminata di cercare la giustizia in maniera totalmente diversa da quella che effettua con assoluta maestrìa il Commissario interpretato da un grandissimo Gian MariaVolontè.

Leggendo “Il giorno di Moro” abbiamo visto solo citazioni di cantanti italiani anni ’70 (De Andrè, Guccini, Area, Battisti, Gaetano, Fortis, Lolli, unici stranieri Pink Floyd e Police). Le hai scelte semplicemente perché canzoni dell’epoca socio-culturale degli anni del delitto Moro o per quello che hanno significato per te a quei tempi?
E’ vero, Ci sono anche piccole citazioni straniere ma, in realtà è stata una scelta dettata dalla storia, tipicamente e quasi esclusivamente italiana. Poi, il nostro protagonista (anzi i due protagonisti) lavorano nelle radio libere dove erano i cantautori ad essere i veri interpreti. Infine per i versi. Ho tentato, infatti, di trovare per ogni capitolo la colonna sonora giusta ed era difficile. Per esempio, ritengo sia impossibile vedere un film di Sergio Leone senza la sua colonna sonora. Te la senti dentro gli sguardi, i movimenti. Ascolti quelle note e pensi al film, ci sei davvero dentro. Ecco, nel mio piccolo ho voluto costruire questa sensazione. Non so poi se vi sono riuscito, alcuni lettori però erano entusiasti della scelta.

C’è chi ha detto che internet è per i ragazzi di oggi quello che per molti di noi le radio libere rappresentarono negli anni ’70. Condividi questa riflessione? Vuoi spiegare ad un visitatore del blog, magari nato solo nel 1994, che cosa significò per te la diffusione a macchia d’olio delle emittenti radiofoniche private, nell’Italia della radio pubblica?
Fu un grande blog e anche un grande blob. Una miscellanea di creatività fatta di colori (perché a quei tempi, le radio libere erano “a colori”) di suoni, di rumori, di scazzi, di telefonate assurde, di dibattiti stralunati, di ipertrofia dell’io, dell’essere “qui ed ora” a tutti i costi e ad ogni costo.
La differenza tra internet e la radio libera è, essenzialmente il rumore. Internet ha questo fascino da “acquario” dove tu leggi ma non sai chi c’è dall’altra parte. Un po’ come la radio ma con la differenza che in radio sentivi le voci. Io, nel mio piccolo ero piuttosto famoso ma nessuno mi conosceva fisicamente. Ed era bello. Tutti però conoscevano la mia voce. Il significato forte della radio libera è però un altro: si scoprì, nel 1975 che esistevano le voci, la possibilità di esprimersi e di essere ascoltati fuori dai canoni istituzionali. La radio fu questa grande liberazione, questo imbuto dell’anima, dove si poteva centrifugare qualsiasi cosa.

Hai mai visto il film “Tutto l’amore che c’è” di Sergio Rubini? E’ stato girato dalle nostre parti e gli anni ’70 nella dimensione paesana, per un verso o per l’altro, ci sono tutti dentro. In Sardegna c’è stato qualcuno che ha tentato un esperimento cinematografico del genere? Esiste un film sardo sull’argomento?
No, ho poco tempo per il cinema in questi ultimi anni e me ne dolgo. Spero ci sia in dvd anche perché io amo Rubini (lo scoprii fin dal suo inizio con la stazione , quando al cinema ci andavo quasi tutte le sere) Conoscendo Rubini immagino però la dimensione del suo “paese” di quell’essere gioiosamente e profondamente del sud. In Sardegna vi è una scoperta in questo senso sia in letteratura che nel cinema e molti registi stanno tentando di raccontare questo vivere paesano (“Sonetaula”, per esempio, è un film tratto dal libro di Giuseppe Fiori, interamente interpretato in lingua sarda e recentemente tradotto in italiano per la televisione è un ottimo esperimento).

Esistono, in Sardegna molti libri che tracciano la dimensione paesana, libri che hanno varcato il continente (penso a Niffoi, Atzori, Abate) e che riscuotono un certo successo.Nei tuoi libri, ma anche nel tuo sito e tra le righe del tuo blog, c’è come il senso di un discorso mai interrotto tra il tuo Io del passato ed il tuo Io del presente. Nella realtà di tutti i giorni, come vivi tu questa dimensione di storicizzazione e come la vivono quelli che ti stanno attorno?
C’è, effettivamente, un vivere nel presente con gli occhi del passato. E’ il mio modo di essere. Sono inglobato dentro certe storie, storie che mi hanno fatto crescere e mi hanno fatto crescere in un certo modo. Cerco di traslare il vecchio dentro un nuovo che, sinceramente non mi piace. C’è troppa plastica dentro i nuovi discorsi, non c’è passione. Io sono figlio di un calcio estinto: ai miei tempi c’era Gigi Riva, che era pura poesia. Oggi ci sono squadre di figurine super pagate che non riconosco più. Io sono figlio di una politica che era scontro e non dialogo. Ma era vera. Oggi tutti dicono che vogliono dialogare ma prima mettono le bombe. Sono cose che non riesco a sopportare. Io sono figlio di canzoni che non ci sono e, secondo me, dovrebbero esserci. Oggi è difficile emozionarsi. Ecco, manca il colore e il gusto della vita. Del vivere. Mi sembra di aver davanti esseri, per dirla con Ligabue, “sopravviventi”.

Condividi l’affermazione “Siamo il risultato delle ferite che portiamo addosso”?
Assolutamente. Siamo anche un ottimo e un pessimo risultato. Ottimo perché le ferite, seppure non rimarginate, non erano mortali, pessimo perché continuiamo a leccarcele e non abbiamo il bastardo coraggio di una soluzione di ricostruzione plastica: eliminare le ferite e le loro cicatrici. Siamo all’antica….

Nel libro “Il Giorno di Moro” il tuo personaggio principale è un magistrato del Tribunale di Sorveglianza che scopre, grazie al suo nuovo ruolo, quello che accade una volta che il processo è terminato e inizia l’esecuzione della pena.. Cioè quando il lavoro più interessante per un magistrato sembrerebbe…finito. Offrire questo punto di vista inedito è stata una scelta dettata dalla tua professione?
Per certi versi si. I magistrati di Sorveglianza (che io conosco molto bene) sono sempre stati considerati (e a torto) quelli di serie B, inutili. Per certi versi è vero. Hanno a che fare con detenuti definitivi, ormai trattati da altri: frattaglie. Epperò hanno davanti altre storie: possono, davvero, ripercorrere la storia di un uomo e non dal punto di vista dell’imputato. E’ un percorso importante, difficile, doloroso, impegnativo, a volte cattivo e crudele. Ma arricchisce e serve per capire, comprendere le scelte dell’uomo detenuto rispetto all’imputato che un giudice dovrà condannare. Perché il Pubblico Ministero, in realtà, è meno libero del magistrato di Sorveglianza. Il primo dovrà condannare o assolvere non per sua decisione ma perché lo ha deciso il legislatore, il secondo dovrà scontrarsi con un uomo e avrà la possibilità di scegliere se farlo e come farlo. In questo senso il mestiere di Magistrato di Sorveglianza è un bellissimo e bastardissimo mestiere.

Sai che molti assistenti sociali ed educatori che operano nel nostro settore vorrebbero cambiare lavoro? La maggior parte poi finisce per arrivare alla pensione, desiderando di fare altro. Secondo te cosa occorre perchè ci si spossa sentire soddisfatti del nostro lavoro?
La sindrome del burn-out è ormai assodata e noi (dico noi anche se adesso faccio, in realtà un altro mestiere) siamo i più investiti. Noi lavoriamo con gli ultimi o con coloro i quali sono considerati ultimi e con coloro che hanno perduto qualcosa. Sappiamo anche che i nostri ultimi possono, al massimo “salvarsi” ma non vinceranno mai uno scudetto dentro questa strana società che dice che siamo tutti uguali ma, in realtà costruisce leggi sociali per dividerci. Il nostro è un bel mestiere finchè vive la creatività e la curiosità. Se non sei più curioso devi cambiare. Assolutamente.
Se dovessi consigliarci un compagno di avventura per un viaggio a piedi in Tibet chi ci consiglieresti, e perché?
Brutta domanda che presuppone una scelta “definitiva”. Penso, per i suoi sguardi intensi e attenti a ciò che lo ha circondato, al suo capire prima degli altri, al suo essere coerente, cocciuto, duro e dolce, alla sua grande spiritualità, sceglierei Pier Paolo Pasolini. Sarebbe un gran bel viaggio. Se devo invece scegliere tra i personaggi viventi ho delle difficoltà. Banalmente mi sentirei di dire il Dalai Lama e, come donna, la Betancourt .
Qual è il romanzo che più hai amato, da ragazzo?
Oddio. Brutta domanda. Nel senso che ci sono molti romanzi che ho amato da ragazzo: “Per chi suona la campana” di Hemingway, “Paesi tuoi” di Cesare pavese, “Delitto e castigo” di Dostoevskij e come libro di formazione direi “Scritti corsari” di Pasolini. Ecco, probabilmente quello che amo di più e che rileggo di tanto intanto, disperandomi per quello che abbiamo perso.
E quali sono le canzoni che più ami, ora che sei grande e la musica la puoi fare anche da te?
Rimango sul classico e quindi i cantautori. Con una lieve puntata sui Pink Floyd (il mio gruppo preferito) e le Orme (vecchio gruppo di avanguardia). Sono però curioso alle nuove cose: Jovanotti, Tiro mancino, Casinò royal, Negramaro (bravissimi) Liga, Vasco. Un po’ tutto questo ma sopra tutti e soprattutto Fabrizio De Andrè, la mia colonna sonora (e colonna sonora unica del mio nuovo romanzo con protagonista sempre Claudio Marceddu).
Fai una citazione a beneficio dei nostri visitatori. Puoi scegliere tu persona ed argomento, ma devi rispettare una sola regola: deve essere ottimista.
“la passione non ottiene mai il perdono” E’ una frase di Pasolini che ritengo bellissima. Ed è ottimista perché, in ogni caso è bello coltivare la passione, al concetto di perdono ho sempre creduto poco e sono stato, fin da piccolo,  dalla parte degli indiani e quindi di quelli che non vengono facilmente perdonati. Appassionarsi è vivere, non farlo è sopravvivere.

36 Responses

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