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una lattina di vita

Io qui non ci voglio stare. Distruggo tutto. Devo tornare a casa. Tu lo sai che sono sieropositivo? Tu lo sai che se ti schizzo il sangue in faccia dopo averti insultato, anche tu ti infetti? Dove mi hanno portato? Esco e vedo il mare, in cella sento il mare. Questa è un nave, non è un carcere. Una nave che non cammina. Sta in mezzo al mare senza muoversi. Come le navi militari nel porto di Taranto. In un punto del mondo che non capisco neppure dove sta. Sai a Taranto cosa ho fatto? Ho spaccato la faccia ad un infermiere che non mi voleva dare l’AZT. Lo sai che cosa è l’AZT? Ma come faccio a spiegarti quello che si prova a chiedere un farmaco per sopravvivere e ricevere sguardi diametralmente opposti alla speranza. Quello credeva che la zidovudina mi facesse l’effetto contrario, che inibisse la mia vita più che aggredire il male. Io l’ho scoperto nel 1990. Questa cosa dell’Aids. In carcere. Devo lavorare in cucina e l’appuntato mi dice che si può fare ma che devi fare le visite e le analisi. Perché sono tossico e anche se da anni non mi faccio. Mica per mia volontà, solo perché il carcere me lo impedisce. Meglio, mi mancano i soldi per comprare la roba in galera. Dove nelle sezioni si spaccia come al centro di Taranto. Anche nella mia cella si spacciava. C’era un ragazzo che lo chiamavamo il sarto perché un giorno si era cucito la bocca. Era diventato il peggiore spacciatore del reparto effe. Insomma, Faccio il test e quello, il medico stronzo me lo dice così, come bere una fanta davanti al castello aragonese della mia città. E me lo dice anche con un sorriso misto ad una fretta che non aiuta a capire niente. Sapevo questa cosa del sieropositivo ma non credevo capitasse a me. C’è freddo quel giorno in infermeria. Un freddo secco, che non crea lo spazio per le domande e nessuna disposizione per le risposte. Me ne torno in cella con la lattina della mia vita e capisco che dovrò bere la bibita con la cannuccia. Come da piccolo, senza sapere e capire quanta aranciata ci sia rimasta dentro. Non ho parlato a nessuno. Tutti i sieropositivi non erano ben visti in sezione, c’erano le celle fatte apposta per loro. L’AIDS serve per spaccare la faccia e lo faccio con rabbia e con la consapevolezza che tanto, tutto era finito, che tutto doveva finire. Eravamo all’aria e, come sempre, ero rimasto tra gli ultimi a parlare di donne, di quelle che si vedevano in televisione che erano carine, che chissà cosa potevamo farci con loro, quando un urlo mi scosse le vene: Ciserno andiamo che agli infetti non fa bene l’aria. Lo guardai come si osserva qualcuno che ti ha rubato l’ultimo pezzo di pane. Con odio. Mi avvicinai, volevo strappargli i gradi, gli occhi, i bottoni della giacca, volevo distruggere quel sorriso stronzo, quel voler essere a tutti costi superiore. Decisi per un pugno, secco, in mezzo al volto. Cadde come un albero tagliato con la sega elettrica. Con calma. Ma cadde. Vidi quella scena a rallentatore e mi trovai, abbastanza velocemente dentro un cella senza niente. Capii, nei giorni successivi, che il medico diceva a tutte le guardie chi era positivo e chi no. Perché così loro, le guardie, stavano attenti a non infettarsi. Ero furibondo e per quindici giorni restai nella cella da solo. Riuscii a parlare solo con l’infermiere perché chiedevo psicofarmaci. Mi spiegò che la mia malattia era pericolosa ma non così estremamente contagiosa. Solo tra tossici se vi passate le siringhe e se si hanno rapporti sessuali non protetti. Forse anche attraverso la saliva. Forse. Con un pugno, insomma, non si andava da nessuna parte. Mai io continuai a picchiare un po’ tutti e girare le carceri della Puglia. Tossico positivo, e rompiballe. Mi trasferirono anche al Nord. Asti. Un carcere nel freddo e nel bianco della neve. Una sera cominciai a sudare e tremare e mi spaventai. Nessuno mi diceva niente e io spaccavo tutto quello che mi capitava. Un medico mi disse che avevo un mese da vivere e che dovevo viverlo senza rompere niente e nessuno. Gli sputai in faccia. Speravo che la saliva facesse un buon effetto. Poi Genova Marassi. Un inferno. Non ero il solo a distruggere cose e raccogliere rapporti. Mi conoscevano tutti e tutti mi evitavano. Ciserno bastardo, infetto, figlio di puttana, lercio, Ciserno tossico, positivo, fase arc, sei conclamato, morto che cammina. Tutto, mi dicevano tutto. Ed ora tu mi dici che qui posso ricominciare? Da cosa e come? Che carcere è questo? Che razza di carcere è? Sembra tutto colorato e silenzioso. Ma è una follia. Una follia dipinta bene. Io lo so. E’ una nave in un porto. Che non si muove. Che non si può muovere. Una grande nave che non fa un passo. Bravi, una bella invenzione. Nessuno arriva e nessuno fugge e gli infetti possono morire. Io spacco tutto ugualmente. Che mi interessa delle tue parole, di quelle del medico che mi dice che c’è una nuova terapia per fare aumentare il numero dei linfociti. Sono dieci anni in carcere e non mi ricordo neppure quale sia stata quella maledetta siringa che mi ha regalato questa vita. Non so neppure con chi fossi, se sono vivi, se si bucano, se spaccano le cose, se ridono, se urlano o se la lattina della loro vita è già dentro i cassonetti della spazzatura o, peggio, rotola tra le ruote delle macchine. Le ruote che ho sempre rubato. Anche se io ho studiato. Lo sai? Mi sono diplomato e volevo laurearmi. Mi piaceva Leopardi e la letteratura. Ho letto molto nelle celle luride. Non per crearmi speranza, ma perché le parole divorano l’angoscia. Anche se sapevo che noi, malati di AIDS, eravamo lattine vuote, succhiate da un’esistenza maledetta senza conoscere né il colore né il contenuto. Sapore dolce che scompare e che diventa solo un piccolo ricordo. Succhiate con una cannuccia di plastica. Questo siamo noi, malati di aids ed è per questo che anche in questa nave sospesa sul mare io continuerò a spaccare tutto.
Mi piaceva. Aveva gli zigomi ben disegnati, occhi che nascondevano passione, braccia forti e nodose, nonostante la malattia. Mi piaceva quel suo essere determinato e determinante, quel suo volere e pretendere, quel suo battere senza levare, quel suo non chiedere niente, che nascondeva la nutrita speranza di essere abbracciato, ascoltato e compreso, quella visione della sua vita che comparava ad una lattina di una bibita che si succhiava con una cannuccia. Velocemente e senza sapere il colore e la quantità che ancora rimaneva dopo l’ennesimo sorso. Mi piaceva Ciserno. Era di quelle persone che ti facevano zappare il terreno con la vanga delle improbabilità e non con il trattore della perfezione. Il solco duro, storto, pieno di curve e sudore che inzuppava l’anima. Non ci vedemmo per un mese. Un po’ perché avevo molti detenuti da seguire, un po’ perché ero sicuro che non avrebbe spaccato niente. Colpa del mare, dell’aria e dei colori dell’Asinara. Lo trovai in officina dove lavorava come gommista. D’altronde era bravo nel rubare le ruote e quindi doveva essere bravo a ripararle. Almeno così credeva il Maresciallo. E credeva bene. Era più tranquillo quando dalla busta gli porsi la bottiglia di aranciata.
“Che significa?” mi disse
“La lattina. Te la ricordi la tua vita dentro la lattina? Ecco, ho pensato che da una bottiglia di vetro la vita si possa vedere meglio.” Gli porsi la bottiglietta e la cannuccia. Accennò ad un sorriso. Tiepido ma avvolgente.
“MA tu che cosa vuoi da me?”
“Offrirti un’aranciata”. Fu il nostro secondo incontro. Me ne andai nella discesa verso il paese di cala d’Oliva con le mani in tasca e con la consapevolezza che la vanga aveva smosso bene il terreno. Cominciò a scendere in ufficio, prima una volta la settimana e poi, con molte scuse, e realmente per recarsi in infermeria, cominciammo a frequentarci più spesso. Ciserno Michele. Una lattina trasparente. Scoprii molte cose di lui. Che era stato molto bravo a scuola, per esempio, che gli piaceva disegnare, che conosceva a memoria molte poesie di Leopardi, che aveva letto uno stranissimo libro “dizionario della stilistica e della retorica” e che lo teneva sempre in cella. Gli piaceva anche disegnare con le parole. Nella vita, inoltre, aveva avuto una storia contorta con una ragazza slava e che avrebbe voluto un figlio da crescere ma che la saracinesca del suo orizzonte cominciava lentamente a scendere. Michele, zigomi forti di una vita macerata, di scampoli di esistenza vissuta sempre pericolosamente. Cominciammo a fare i conti. Non c’era ancora una legislazione che permetteva di lasciare il carcere preventivamente se i tuoi linfociti scendevano oltre una certa soglia e, a dire il vero, con Michele tutto sembrava funzionare perfettamente. Le medicine davano qualche risultato. Così diceva il sanitario. Lui non tremava più. Era diventato un igienista perfetto, curioso nel conoscere gli stadi della sua malattia, capace di ascoltare e imparare velocemente tutto. La sua lattina continuava a detenere liquido. Non sapevamo quanto. Ma sbattendola qualcosa si sentiva. Parlai con il Magistrato di Sorveglianza. Michele, negli anni non aveva mai ottenuto la liberazione anticipata. 90 giorni di carcere in meno per ogni anno di buona condotta. Dieci anni sono 900 giorni, quasi tre anni in meno. Sufficienti per ottenere la libertà. Michele non poteva averli. Aveva sempre spaccato tutto. Erano trascorsi due anni all’Asinara con una condotta ottima. Michele non intendeva presentare la richiesta. “Tanto sarà una sconfitta. Mica mi danno 900 giorni di vita a me che sono stato stronzo per quasi dieci anni. “ Aveva ragione. I giudici ragionano più o meno in questo modo: dividono al vita del detenuto in semestri e giudicano ogni sei mesi. Danno il voto, la pagella sul tuo comportamento e quindi, paradossalmente se il primo semestre hai un rapporto non prendi i 45 giorni se invece nel secondo ti comporti bene – ed è difficile comprendere appieno il significato del comportarsi bene – ottieni la liberazione anticipata. Insomma, la tua vita detentiva è uno spezzatino. Lo ritenevo ingiusto. Il primo quadrimestre si può anche sbagliare ma nel secondo può arrivare la promozione. Lo sapevo io e lo sapeva Michele. A scuola funzionava così. Provai, timidamente a parlarne con il Magistrato di Sorveglianza con il quale eravamo diventati amici. Fabrizio era titubante. Si era sempre fatto così. Non possiamo distruggere la vita di un uomo dicevo. Se dimostra di aver lasciato alle spalle quel suo essere duro, cattivo, quel suo graffiare la vita solo con le mani, quel suo urlo non ascoltato. Non possiamo dividere la vita di un uomo a spicchi. Non possiamo, inoltre di quegli spicchi farne una spremuta e metterla in lattina. Le fasi della vita son diverse e Michele ha dimostrato che è capace di ascoltare solo se qualcuno gli regala attenzione, che è capace di lavorare se qualcuno gli offre quello che sa fare, che è capace di sorridere se qualcuno gli offre le sensazioni, che è capace di voler continuare solo se qualcuno gli indica una strada. Se riesce ad ottenere 900 giorni di liberazione anticipata significa che potrà uscire, subito, prendere la Cantiello e ritornare a casa, nella sua Taranto, con un bagaglio di conoscenza e di responsabilità che prima non aveva. “Non si può fare” diceva Fabrizio. “Sei come Michele, vuoi spaccare tutto,” rispondevo”.
“No, tu sei come Michele,” diceva “che vuoi forzare le leggi”.
“Le leggi,” aggiungevo, “sono costruite dagli uomini per gli uomini. La concessione della liberazione anticipata deve tener conto della buona condotta ma non solo in un semestre. Deve tener conto delle speranze, delle incertezze, delle titubanze che gli uomini hanno e vivono dentro le sbarre per tutta la carcerazione. E noi, dobbiamo riuscire a capire quando si devono premiare gli sforzi, quando la giustizia deve smettere di essere semplice vendetta”.
Era una giornata dolce, con un mare che appariva come lago. Una di quelle giornate che apparentemente non si muoveva niente se non uomini che camminavano verso la Cantiello. Faceva freddo. Quel freddo che pizzica la pelle e ricerca le coccole di una coperta. Quel freddo che dipinge tutto più limpido e più vero. Michele, con la sua sacca si avvicinò alla nave che con le eliche al minimo costruiva piccole onde e smussava il mare fermo. Si guardò intorno prima di imbarcarsi. Forse per paura, forse perché non è facile dopo dieci anni di vita trascorsa a ricevere ordini e seguire un rigido regolamento trovarsi libero, libero davvero. Ero sulla poppa. Ad aspettarlo. Con una lattina di aranciata. “Non aprirla neppure” gli dissi, “mettila in frigo e guardala ogni giorno, distrattamente, dentro c’è la tua vita e questi 900 giorni di speranza”.
Mi mandò una cartolina da Taranto dopo qualche mese. Era appena trascorso il Natale. Una sola frase: Grazie. Non ho sconfitto la malattia ma, anche insieme a te, gli abbiamo almeno spaccato la faccia.