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La grande soluzione (omaggio a Falcone e Borsellino)

La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni.
Giovanni Falcone
Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola
Paolo Borsellino.

C’è un sole tiepido che si incunea dalla grande finestra e colora gli angoli di una stanza grande, spaziosa, con un camino al centro e un vecchio sofà sulla sinistra. Sopra la cappa, annerita dagli anni, la testa di un muflone.
Il vento stasera non si sente neppure. A volte, però, riesce a disegnare contorni acuti, passa tra le finestre e fa ululare le cose che sembrano rianimarsi, prendere una forma diversa. Dentro quella stanza che sembra impalpabile, sul tavolo lungo, adagiata, una vecchia macchina da scrivere, una Olivetti linea 88. Grigia. Vicino alcuni libri e molti faldoni. Due sedie dismesse, una matita per terra e un posacenere colmo di cicche. Sembra essere l’unico segno di vita nel silenzio senza vento.
Il contorno azzurro è assolutamente immobile. Ha il rumore del lago. Quasi inesistente. Ma è mare ed è salato abbastanza per rendersene conto. Ha dei movimenti impercettibili e solo vicino agli scogli se ne sente il rumore. Al tramonto assume una forma diversa. Seta che si muove lenta, sinuosa, avvolgente. Acqua che unisce un’isola lontana.
La strada è una raccolta di vecchie pietre unite in maniera quasi rocambolesca. Non c’è un disegno geometrico, non c’è la grazia di una via di città. Ma neppure di campagna. E’ una condizione non definita e non definibile. Sembra disegnare, quasi, una semplice via dove si affacciano piccole case, sino a giungere ad una piazza grigia, asfaltata con il cemento dove l’unica cosa colorata è rappresentata dalla cabina telefonica che sembra, vista con i nostri occhi, un reperto di archeologia industriale.
Su quella piazza, con una buona dose di ruggine addosso una panchina, che una volta era verde e che faceva da buon contrasto alle case bianche e immacolate, oggi anch’essa sembra inutile in un luogo dove non è necessario riposarsi od attendere il rumore del vento.
La chiesa, adagiata in una leggera salita osserva la piazza. Le hanno disegnato piccole e semplici scale ed è facile raggiungere il sagrato da dove è possibile guardare il mare. E’ un paese per bambini, adatto ai giochi e alle rincorse gioiose, ma è immerso, oggi, dentro un conturbante silenzio. Un silenzio che non ha occhi, che non rincorre battiti di vita, che non è pausa di riflessione. Un silenzio che ha il peso dell’attesa, di qualcosa che non accade ma potrebbe sempre accadere, qualcosa di importante, di definitivo, qualcosa che riesca a cancellare la polvere degli anni che si è posata sull’isola, qualcosa che raccolga cestini di parole e ricostruisca pensieri, periodi, frasi, racconti; che possa in qualche modo restituire una storia, una storia che non è stata ancora raccontata ma solo annusata in mezzo a scogli antichi e inconsapevoli di chi ha avuto modo di osservarli. Il mare è di tutti come, paradossalmente, anche quest’isola.
Giovanni cammina lentamente, con parsimonia, quasi a volersi gustare quella strada che dalla foresteria nuova abbraccia la piazzetta con la panchina arrugginita. L’ennesima sigaretta che fuma con una buona dose d’avidità è quasi l’unico sospiro che lo accompagna. Al centro della piazza un gatto che osserva i piedi di Giovanni che non producono nessun rumore. Paolo non è ancora rientrato dalla gita in barca. Ha deciso di attenderlo al porto, magari ha pescato qualcosa e gli occorre un aiuto. Sorride mentre butta la cicca e cerca nervosamente il pacchetto di sigarette in tasca. Non pesca quasi mai niente Paolo. Anzi, è anni che non prende proprio nulla. O lo ributta in mare ricordando vecchie sfide letterarie oppure quello che portava a casa, a Palermo, lo acquistava passando per la Vucciria e mostrando pesce che non era suo. Ma in quest’isola non si può fare. Solo mare a perdita d’occhio e silenzio sublime.
Si siede sul gradino della casa davanti al porto. Una casa bianca con un piccola porta. Si accende un’altra sigaretta e quel fumo che lo avvolge, tenue, evanescente, regola i tempi dell’attesa che sono infiniti. Tutto sembra muoversi ma, in realtà è irrimediabilmente fermo e anche quel fumo che sembra dipanarsi si mischia nell’aria docile e stabile di un’attesa che è contemplazione.
Giovanni adesso ascolta il rumore del mare. Gli à sempre piaciuto, fin da bambino quando a Palermo, a Mondello ci andava con le sorelle e i colori erano forti, luccicanti, le voci e i bambini, i palloni colorati, il caldo forte che si incuneava anche nei pensieri: lo scirocco che lo rapiva e che lo spossava ma che era vita ed era suo, figlio della sua terra: la Sicilia.
Giovanni adesso ascolta il rumore del mare. Onde che non hanno scogli, ma piccoli sassi neri che si adagiano sino alla casa rossa, l’ultima prima del lungo orizzonte mare. La loro casa. Ci sono arrivati il 24 maggio del 1992, prima della mattanza, prima del buio e del rosso sfavillante, prima dell’odore di esplosivo, prima delle le voci che non si sentono, prima del grande sconquasso.
Prima.
Un attimo prima.
Giovanni adesso assorbe il rumore del mare. Solo, davanti al porto. Una boa che galleggia e non si sposta. L’acqua che osserva e non si muove. Neppure le cicale o un vento tiepido. Niente. Ma da quel rumore un urlo forte, alto, che avvolge il silenzio del luogo.
“Ho preso una grande preda” è la voce che sente Giovanni e volgendo lo sguardo verso la casa rossa si accorge di un puntino che lentamente si avvicina e diventa barca e diventa uomo e diventa Paolo, in piedi che sorride. Occhiali scuri e baffi sottili, immancabili, così come Giovanni. Baffi da gente del sud dice sempre Giovanni. Così ci riconoscono anche da lontano, aggiunge Paolo”.
“Che hai preso?” risponde Giovanni alzandosi e abbandonando il gradino di granito della casa davanti al porto.
“Una papera” risponde Paolo e si capisce che sorride anche se Giovanni non lo vede ancora.
“Scimmunito” dice Giovanni mentre arriva sul molo e aspetta che Paolo gli lanci la corda.
“Non fai collezione di papere?” dice adesso Paolo con voce bassa e con un sorriso fin troppo visibile.
“Da oggi faccio collezione di magistrati” risponde Giovanni con sorriso più lento.
“Mih, non ti invidio, brutta razza i magistrati” dice Paolo mentre tende la corda al suo forte amico.
La barca adesso è ben legata ad un palo di cemento. Paolo non ha pescato nulla. Come sempre. Porge la mano a Giovanni che lo aiuta ad arrivare sul molo e si dirigono verso la casa rossa. Passano dal retro delle altre case ingoiate nel bianco pallido e che guardano l’acqua.
Passando ascoltano il rumore del mare e sembra quasi se lo mettano in saccoccia.

Hanno appena finito di cenare quando, entrambi, escono ad accovacciarsi negli neri scogli che lambiscono la foresteria. In quel nero morbido Paolo accende la sua Danhill e porge l’accendino a Giovanni.
“Te lo ricordi” dice aspirando lentamente “che questa doveva essere una breve pausa e adesso, siamo ancora qui”.
“Già,” risponde Giovanni mentre cerca il suo scoglio preferito quello che fuoriesce dagli scalini in cemento, “adesso quanti anni sono passati?”
“Troppi. Dicono che ci è valsa la vita”.
“Una vita di solitudini e di troppi rumori”.
Il mare osserva quei respiri che aspirano fumo e parole.
“Paolo, ti ricordi la lettera della signora incazzata al giornale di Sicilia”?
Sorride dentro quel nero fermo. Ma è un sorriso che si sente.
“Eh… cari giudici andate a vivere in campagna, voi e le vostre sirene che ci spaventate e che magari ci fanno saltare in aria i-n-n-o-c-e-n-t-e-m-e-n-t-e.”
Lo scandisce con calma quell’innocentemente Paolo, perché gli piace calcare sul suo accento, sul suo essere siciliano, palermitano, della Kalsa. Come Giovanni.
“Tu non ci crederai ma io a quella signora ci penso” aggiunge Giovanni.
“E che ci pensi a fare?”
“Perché ci ha salvato la vita”.
“Ancora con sta cammurria. Giovanni, la vita ce l’ha salvata lo Stato”.
“Paolo, ti ricordi cosa dicevo quando si faceva tardi in ufficio?”
“Andiamo a casa e diciamo buonasera allo Stato, questo dicevi”.
“Invece lui, lo Stato, la buonasera ce la regalava prima. A volte nel pomeriggio, a volte di primo mattino.”
C’è un vento che avvolge le parole ma le restituisce. Le sfiora appena e le rinfresca. Ma quel vento le depone sul mare, sugli scogli e sulla terra e la restituisce più pesanti.
“Giovanni, lo Stato ci ha dato la possibilità di poter giungere al maxi-processo quello che abbiamo scritto noi, qui, nel 1985. Te lo ricordi?”
“Certo. Me lo ricordo. Ci isolarono. In terra che non era nostra. In mezzo a questo mare forte e immenso. Ma ci isolarono anche in Sicilia, in terra di mafia. E da quelle parti, a lungo andare, l’isolamento condanna un uomo alla morte”.
“Si, però,” aggiunge Paolo, “come diceva Boris Giuliano, l’importante è stare sempre dalla parte giusta”.
“E lo Stato da che parta stava?” dice Giovanni alzandosi e rientrando nel salone alla ricerca del suo pacchetto di sigarette.
“Da nostra, almeno credo”, aggiunge Paolo e getta una pietra in acqua che non costruisce cerchi ma si inabissa con troppa velocità e restituendo solo un piccolo rumore sordo.

Paolo ha immagini che camminano lontano. Cartoline da pescatore. Meglio, forse di navigatore che giunge in porto senza cannocchiale, annusando il vento e stringendo gli occhi. Il mare non è nemico e la vecchia regola del rispetto è sempre valida per Paolo. Il mare non si vendica. Non è la mafia. Anche se, almeno in questo caso e almeno negli ultimi anni nutre qualche piccolo dubbio che Giovanni martella quasi quotidianamente: la mafia uccide, vero. Ma a volte i mafiosi eseguono ordini di altri mandatari. Ordini che partono da altri luoghi ma che, paradossalmente respirano la stessa malvagità, la stessa vigliaccheria. Ha sempre guardato con forza Paolo. “Il mio scudo umano” ha sempre detto. “Se non muore lui non muoio io e se lui vive viviamo entrambi”.
Lui, Paolo, ha annusato il mestiere nell’ufficio del padre di Giovanni. Ha sempre avuto un alto senso del suo mestiere. Da sempre e per sempre.
La famiglia, i figli, i salmi. E il mare. Che si è portato dietro da una vita. Dentro quest’isola prigione a osservare acqua che non porta più nessuno, che non ha storie da decifrare.
Giovanni quest’isola non l’ha mai amata. Non per il mare o per la sabbia o per il vento. Ma perché blocca tutti i movimenti. Tutti i pensieri. Ha sempre parlato poco e con parsimonia Giovanni. Ma aveva velocità nel comprendere, nel carpire, nell’analizzare. Sapeva leggere nel deserto della mafia. Aveva capito, prima degli altri, più degli altri che la forza, la vera forza erano le parole, la circolazione delle parole che erano informazioni sui conti bancari, sulle amicizie altolocate, su tutto quello che permetteva a persone pitturate di bianco a presentarsi al cospetto di altre persone che raccontavano e salutavano e mietevano consensi politici. Aveva capito, prima degli altri, più degli altri che occorreva sgretolare i segreti, limare i silenzi, attorcigliare i concetti, rimodellare le storie, approvvigionare tutti gli elementi che avrebbero portato a capire un quadro che pareva un Picasso misto ad un Guttuso. Troppi colori e troppi segni. Ma la mafia non vuole simboli. Giovanni l’aveva capito. Erano il potere e i soldi quello che la mafia cercava. Quel potere oscuro e cristallino nello stesso tempo, quel potere che erano voti, favori, appalti, erano ostentazione e grasse risate, era il volersi prendere in gioco di Giovanni e di gente come lui, come Boris Giuliano, Cesare Terranova, Rosario Livatino, come Peppino Impastato, il regalare sempre una corda troppo stretta a chi voleva disegnare nuovi orizzonti. A chi credeva in questo Stato.
Dovevano salvare le loro vite. Per forza. Dopo il falso attentato all’Addaura, dopo che qualcuno confessò che stava arrivando in Sicilia il tritolo per far saltare i giudici, con attentati sempre più spettacolari, che Giovanni e Paolo dovevano smetterla di disegnare, occorreva rubargli le matite ma sapevano che tutto questo non sarebbe bastato.
Gente dura quelli.
Capaci di disegnare anche con le dita intinte nel fango. Come i bambini. Da sempre uniti, dalla kalsa quando rincorrevano un pallone e osservavano gli altri giocare che avevano, in quel momento, occhi di ragazzo inerme ma che, dopo qualche anno, avrebbero cambiato radicalmente prospettiva alla ricerca non di un pallone docile ma di soldi e di potere. Gente forte quella, entrambi capaci di scrivere per giorni e giorni e giorni pagine pesanti e definitive sulla mafia, sui loro affiliati, sui loro sporchi giochi. Giovanni lo scudo di Paolo. Paolo il terminale di tutto. Potevano ammazzarli.
Fu quel bagliore che produsse la soluzione finale. La grande soluzione, come sarebbe stata riportata dai giornali dell’epoca. Perché la mafia si stava organizzando, perché la mafia aveva deciso i recidere definitivamente quei volti, aveva deciso di molestare il silenzio, mischiando polvere allo scirocco, di spruzzare altro sangue buono e caldo, altro sangue intorno a ciò che distruggeva il suo stupido impero.
La grande soluzione. Non era tempo per nuovi eroi. Non ce lo potevamo permettere. Era il tempo delle grandi risposte in un paese avvelenato che non riusciva neppure ad eleggere il proprio Presidente della Repubblica. Dentro un caldo che raschiava le colline e scioglieva le anime, dentro un sole che illuminava un paese immerso in un indefinito domani, dentro un cielo che non raccoglieva nuvole si alzarono due elicotteri da Punta Raisi a sfiorare quasi l’autostrada, al bivio di Capaci, in una domenica assonnata e con poco traffico. E ancora su quella Palermo addomesticata e violentata da palazzi orribili costruiti dalla mafia per i soldi e per il potere, l’elicottero sfiorò la palazzina di via d’Amelio e Paolo osservò, dall’alto quel cemento che conteneva gli occhi dolci di sua madre.
La grande soluzione che fece muovere le ali verso Sud e poi Ovest a rincorrere il tramonto e poi Nord sempre sotto un mare amico che aveva visto inabissarsi, a qualche miglio anche l’aereo dell’Itavia.
La grande soluzione in un maggio del 1992. Il 23 maggio 1992, appena cinque giorni dopo il compleanno di Giovanni.
La grande soluzione che fece atterrare quell’elicottero in uno spazio gonfio di polvere e gabbiani spaventati e uomini che si coprivano la fronte con la mano. Erano giunti. Planati nei ricordi che avevano già vissuto. Erano arrivati nello stesso luogo che li aveva ospitati nell’estate del 1985, quando scrissero il più alto atto di accusa contro la mafia. Avevano raggiunto la foresteria rossa, quella adagiata tra gli scogli e il mare. Tra il maestrale, il levante e l’impossibilità di una fuga.
La grande soluzione prevedeva questo. Per qualche mese. Forse fino a Luglio. Fino a Luglio del 1992. Pareva tutto così semplice, così provvisorio. Nessuno avrebbe mai immaginato niente di definitivo.

Paolo attraversa quella piazza che ha ormai solo sul lato delle case due panchine arrugginite. Una volta erano verdi e una volta ci giocavano i ragazzi. Quando Paolo e Giovanni riuscivano, per un attimo, ad entrare nel vecchio bar stile anni sessanta, con il biliardo gonfio di fumo e di parole. Quando si respirava la stessa voglia di poter fare altro, di essere da un’altra parte, un’altra sponda, un’altra vita.
Poi, nel 1998 un altro silenzio. Si sbaracca. Lentamente fuggono quegli uomini accovacciati nelle loro pene a salpare per l’ultima volta verso una terra ferma piuttosto illusoria, perché sempre di isola si tratta.
Paolo ha visto partire gli ultimi occhi che scrutavano dalla Cantiello quel mare che non sarebbe più ritornato. Un’Itaca che non avrebbero mai più riabbracciato. Ulisse che non torna. Penelope che non attende. I proci che riaffiorano e costruiscono il futuro tra i soldi ed il potere. I soldi ed il potere.

Fa freddo. Un freddo umido, appiccicaticcio. Paolo accende una sigaretta e si avvicina a Giovanni, seduto sulla panchina che guarda, con il suo solito silenzio, il bianco della chiesa.
“Paolo” gli dice, “ma abbiamo vinto o abbiamo perso?”
Paolo gettando fumo verso il niente sorride, d’un sorriso tardo e lento: “Noi abbiamo vinto perché siamo riusciti a sopravvivere a tutto questo.” Io avevo capito tutto. E’ tutto scritto qui”. E voltandosi mostra la sua agenda. L’agenda rossa.
La grande soluzione era capire e raccontare. Le parole, le idee, i concetti sopravvivono ai sorrisi, al maestrale, allo scirocco, alla polvere che dall’autostrada vomita e produce come un terremoto. Sopravvive a chi, ancora oggi vuole imbalsamare icone docili e inutilizzabili. Giovanni e Paolo sono sopravvissuti alla retorica, alla necessità e alla forzatura, all’idea che tutto poteva finire, che tutto, come nelle lavagne nere, si potesse cancellare. Ed invece, chi cammina con i gessetti colorati prima o poi, anche nel buio, un segno riesce a modularlo per ricamare ricordi e per rafforzare la forza della memoria.
Paolo guarda Giovanni e vorrebbe dire che dentro l’agenda rossa c’è un’altra risposta, fatta di patti segreti e di papelli, di gente che è indegna di sopravvivere alla storia, che è incapace di poter finire in qualsiasi lungometraggio perché non riusciranno mai a mettere la parola fine. Come in questo caso.
Giovanni guarda Paolo. Si avvicinano. Quasi si sfiorano e si sorridono. Rimangono così, come un fermo immagine dentro gli occhi di chi li vuol vedere.
Nel cielo milioni di papere salutano colorando il mare di bianco. E di speranza.

Tratto da “le destinazioni del cielo” di Giampaolo Cassitta – Arkadia Editore, settembre 2014

Nota a margine.

Il racconto era un’idea abbandonata nella memoria. Avevo quasi come paura a trattare l’argomento. Mi trovavo sicuramente a mio agio con le storie del terrorismo. Meno con quelle di mafia. Inoltre avevo conosciuto Falcone e Borsellino nel 1985 durante il loro breve e intenso soggiorno all’Asinara.
Ero all’Asinara anche nel 1992, quando giunsero i mafiosi a Fornelli, sottoposti al regime del carcere duro, quello previsto dall’articolo 41 bis della legge 354/75.
Insomma, non volevo scrivere niente di questi miei due eroi dolci e malinconici, non volevo intaccare la loro fierezza, la loro storia.
La colpa di tutto questo è di Riccardo Mostallino, il mio editore. E’ lui che mi ha “obbligato” a rimescolare le anime, a cercare un posto per due grandi uomini. Devo ammettere che aveva ragione. Ho ammirato molto Falcone e Borsellino. Sono, per me la ragione per la quale continuo a credere con forza in questo Stato. Sono ilmio orgoglio e il mio punto di partenza. Sono due piccole icone che spero, con questa piccola storia di non aver tradito. Mi piaceva l’idea che lo Stato, quello in cui credevano loro e credo io potessero davvero salvarli all’ultimo momento, come nei migliori film americani. Non è accaduto. E allora, ripensandoli li ho riportati all’Asinara, nella mia Asinara a respirare dolcezza e vento gonfio di acqua salata. Così, scrivendo questa piccola storia mi sono sentito meno solo.