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La cosa giusta.

La cosa giusta.

Ecco, in anteprima per i lettori del sito, uno dei capitoli inediti della seconda edizione del libro “la zona grigia, cronaca di un sequestro di persona”, nelle librerie a Settembre 2010.
Buona lettura.

Egidio Carcangiu – La cosa giusta.

Uno aspetta il Natale chiuso in un anno infame. Che non mi aveva intimorito a dire il vero. I rumori degli attentati dei terroristi da queste parti non arrivavano. Piuttosto qualche abigeatario, qualche pecora che spariva., qualche confine che si allargava. Come tutti gli anni, tutti i mesi, tutti i giorni. Da sempre in questa strana isola. E, invece del Natale che sarebbe sopraggiunto tra qualche giorno, mi vedo arrivare le divise nere, dentro una serata oscura, che bussano ed entrano e mi prelevano, a me e a Antonio Cau.
Entrambi di Sadali.
Un paese che non aveva neppure i ferri necessari per arrestare. Perché questo, all’inizio è stato.
Quasi una farsa più che una tragedia.
Il Maresciallo che chiede gli schiavettoni a quelli di Seui perché a Sadali, al massimo, ne potevano stringere uno di uomo. Ed eravamo due. A marciare nella notte senza conoscere il motivo, senza sapere la strada che si percorreva, sino ad arrivare con i rumori forti delle catene che stringevano dentro una caserma. Quella di Lanusei.
Dove, da quelle parti, non erano abituati a salutare, a stringere la mano, a dire buonasera, a fare un cenno con la testa, a stare zitti e girare la faccia. Da quelle parti usavano i cani dei fucili contro le nuche di chi era diventato, in un attimo, cattivo.
Il cattivo.
A tutti i costi.
Davanti persone che non avevano la divisa ma saliva da spalmare, rabbia ingigantita, domande secche che attendevano risposte precise. Chiedevano di un bivio, del percorso che avevamo effettuato io e Cau. Cau ed io. Mi chiedevano di ripercorrere la strada, attimo per attimo, la stradetta e la cava, io e Cau, Cau ed io.
Ed io che non capivo a racimolare i ricordi e le sensazioni della sera in cui io e Antonio Cau cercavamo una pecora. Che importanza potrà avere una pecora per questi signori? Che importanza potrà avere un pastore per questi interroganti? Che importanza potrà avere la mia vita, quasi raccolta nei silenzi di un paese dove il maresciallo non ha manette a sufficienza per arrestare gli uomini?
Così, con la nuca malferma, con il colpo del fucile, con le urla e la saliva, con gli occhi lividi che mi scrutavano, con le mani che tamburellavano sopra un tavolo che vedevo enorme, regalavo risposte che non erano ricordi e non ricordavo per rispondere. Posto che fosse importante rispondere, posto che fosse giusto rispondere, posto che fosse vitale rispondere il giusto.
Avrei capito, con il tempo, che il giusto era un aggettivo piuttosto complesso dentro gli scaffali di una certa giustizia.
Ci trasportano a Cagliari, nel carcere di Buon Cammino. Non avevo mai visto un carcere. A dire il vero non ero mai passato davanti al viale del carcere di una città per me lontana. Non avevo mai preso in considerazione la possibilità di gestire i miei pensieri e le mie parole dentro un carcere. Non avevo la più pallida idea di cosa fosse andare in galera, se non qualcosa di davvero brutto e oscuro. Avrei imparato, con il tempo che il carcere macina anni e gli attimi non camminano, avrei imparato che i colori non hanno contorni e in un carcere non ci sono stagioni.
Erano passate forse poche ore, anche perché in matricola ci avevano tolto tutto, orologi, anelli.
Tutto.
Pensavo chiedessero anche i nostri cervelli per sistemarli da qualche parte. Ma sentivo ronzare domande e non avevo troppe risposte. Cominciavo ad avere paura.
Il giorno seguente si presenta un giudice con il mio Avvocato. Mi chiede del bivio, di Cau ed io, di io e Cau e accenna di una macchina bianca che passava a pochi metri dal bivio di Seulo e io a rincorrere la strada e quei momenti e quel bivio e Cau e la pecora. Allora fu un attimo, allora capii, fui costretto a capire, a sintonizzarmi con i ricordi, a rimangiare le storie già vissute e ruminarle. Avevo le risposte, le risposte giuste. Ma non lo erano abbastanza, non lo erano per il giudice e al giudice non interessevano. E l’avvocato mi guardava e guardava gli angoli di quella stanza alta e grigia, e guardava i solchi di un pavimento lurido e viscido e guardava in alto e a destra e sopra e sotto e guardava e non scriveva, non segnava appunti, non protestava, non diceva, non rintuzzava, non bloccava quell’onda giudicante che continuava a chiedere, a domandare.
Mi chiedeva della mia infanzia, che avevo fatto da bambino, che avevo fatto da ragazzo, che avevo fatto da giovanotto.
Che avevo fatto.
Potevo rispondere in milioni di modi, ma lui cercava la risposta giusta che non era quella semplice e lineare: io da bambino avevo fatto il bambino e da ragazzo il ragazzo e da giovanotto il giovanotto. Ma non bastava, non era quella la risposta giusta. E l’avvocato mi osservava e non suggeriva e non si sperticava in spiegazioni e muoveva la bocca come un pesce nell’acquario.
Senza dire assolutamente niente.
Poi mi chiese se conoscessi alcune persone, nomi che non significavano niente per me. Ma potevo fare la cosa giusta, diceva. Dire che li conoscevo, che erano delinquenti, che avevano commesso il fatto.
La cosa giusta.
Che non sapevo quale fosse.
Poi, dopo attimi che appaiono croste di memoria, arriva lui.
Camicia bianca dentro una giacca grigia.
Pantalone scuro e faccia decisa.
Un altro Magistrato.
Il mio avvocato che arretra, che si sposta, che crea un cono d’ombra tra la figura aulica e filiforme di questo strano uomo, mai visto prima, neppure in televisione, perché non guardavo quasi mai la televisione, solo le previsioni del tempo.
E non leggevo i giornali.
Non leggevo di magistrati, di sequestri e di sequestrati. E di sequestratori.
Questo appresi, il 20 dicembre 1978. Cinque giorni prima di Natale: che avevo sequestrato un uomo. E per me, questa cosa non era una cosa giusta. Anzi, era una cosa maledettamente e schifosamente ingiusta.
Impensabile.
Non avevo mai rubato neppure una pecora in vita mia. Non avevo mai preso neppure una multa, avevo tutti i bollettini delle mie pecore, avevo tutte le firme giuste per il notaio. Tutte le firme giuste per i piccoli saluti di paese, per il parroco e per il sindaco, avevo tutte le firme giuste per gli amici e per quelli che non mi conoscevano neppure.
Ma non per lui.
Non per Luigi Lombardini.
Il giudice.
Che mi guardava come il mio cane puntava la pernice, come un grifone osserva un agnello, come un gatto il suo topo, come un avvocato il suo cliente. Con circospezione e con l’assoluta certezza di essere dalla parte giusta.
Lombardini, il giudice, il supremo, il risolutore, suggerisce e mi chiede di confessare. Se lo avessi fatto sarei andato subito a casa.
Mi guardava senza espressione, aveva un fraseggio livido, monocorde, aveva la forza dalla sua parte.
Lui era la forza.
La suprema risposta, l’attimo finale, lui era il prologo, il cuore e l’epilogo di tutto.
Lui non parlava e il suo cancelliere scriveva.
La macchina da scrivere produceva lievi rumori, formicolii nell’aria, era al cospetto del giudice, era al servizio del giudice, il foglio si riempiva di parole che non avevo mai pronunciato, che non avevo mai coniato, che non avevo mai pensato.
Eppure, come un copione di un film mai visto, quel foglio diventava gonfio di parole e di nomi: lista di carne umana che non conoscevo.
Lui, il Supremo, il grifone che volava più alto di tutti, decise di non scendere in picchiata sulla preda.
No, svolazzava sulla stanza e il cancelliere scriveva senza che nessuno dettasse niente. Il mio avvocato era un gomitolo di pensieri inutili. Carta straccia. Finchè si apri la porta e ci fu la luce.
Arrivò come un piccolo sultano, un imperatore carico di forza, un guerriero senza spada, un mattatore di una scena amletica.
Il grande Procuratore Giuseppe Villa Santa.
Lui non guardava, osservava con mestizia, non parlava ma sussurrava verità, non ascoltava, ma suggeriva risposte e pretendeva, ecco pretendeva, che tu facessi la cosa giusta.
La cosa giusta che dentro questa aula sorda e nera, fredda e dura, era firmare un foglio con una serie di nomi, occhi che non avevo mai scrutato, sguardi che non avevo mai incrociato e dire che questi, proprio questi, solo questi, esclusivamente questi erano i sequestratori dell’Ingegner Bussu.
Questa era per Villa Santa e Lombardini la cosa giusta.
Dentro questa stanza livida forse. Dentro questo contesto abulico, forse. Dentro questi binari morti, forse.
Ma non per me.
Per me che avevo altri orizzonti nella mia vita, che avevo altri prati e altri sorrisi e altre strade da percorrere. Per me quella non era la cosa giusta. Capii da subito che quel mio cavalcare strade diverse, diverse dagli attori principali, diverse dalle loro verità, mi avrebbe procurato qualche strappo, qualche giorno di carcere, qualche ripensamento. Ma ero tranquillo. Non sempre la cosa giusta è la migliore, pensavo. A volte anche cose ingiuste servono per ripianare la verità. Passerò il Natale in carcere. Pazienza. Forse anche Capodanno. Ma senza una prova, senza un foglio, senza nessuno che possa dimostrare qualcosa, è un castello impresentabile davanti a qualsiasi tribunale.
Mi sbagliavo.
Perché occorre conoscere certi passaggi per schivarli.
Occorre comprendere quali sono gli abiti con i quali presentarsi, occorre capire gli sguardi e le parole e le risposte da confezionare. Occorre tutto questo nel teatro del processo, delle indagini, del prendere e lasciare, del battere e levare. Occorre essere bravi, davvero bravi, per poter stare sulle scene, per poter recitare un monologo con le pause giuste.
E io, sinceramente, per quanto mi impegnassi, non ero bravo.
Non potevo esserlo.
Avevo scelto un copione che non sarebbe mai andato in onda. Loro avevano tutto dalla loro parte, erano giudici e avvocati, troppe parti in una sola commedia.
Dissi che non potevo firmare perché non era la cosa giusta, perché io non conoscevo quelle persone, perché non conoscevo i luoghi e le storie. E io, le storie che non vivevo non le sentivo mie. Non ero uno che scriveva romanzi io. Ma il mio avvocato pesce era sparito. Lo cercavo e dentro quella stanza non c’era. Mi aveva lasciato solo, aveva assunto la figura di una comparsa che, mestamente, aveva abbandonato la scena.
Questo non era molto interessante ai loro occhi. Queste cose non interessano agli avvocati, diceva Villa Santa. Non capivo, a questo punto, cosa potesse interessare agli avvocati.
Al mio avvocato, soprattutto. Che non c’era.
Ci sono momenti che sembrano indimenticabili. Possono essere il primo bacio, il primo sorriso dolce che qualcuno ti offre, la prima sbornia, la prima volta, il primo cavallo che fugge insieme a te dentro una campagna aspra. Tutto questo mi passava dentro quella stanza. Tutto quello ballava dentro un luogo fermo e paludoso. Dentro questa sacralità laica scatta la domanda alta, intensa, unica, che si fa al condannato a morte, a colui il quale è oltre il precipizio: “Lei crede in Dio?”
Lombardini mi guarda e, per la prima volta sento le mie labbra umide, che possono, in qualche modo, prestarsi alle parole. Rispondo affermativamente anche perché è l’attimo in cui ci si deve aggrappare a tutto: a Dio, a Gesù Cristo, a qualsiasi altro Santo, a qualsiasi altra cosa, a qualsiasi altra divinità, a qualcosa che dia un senso a questa storia.
Certo che ci credo, rispondo.
Lui si gira e fa un giro dietro la mia spalla e io con occhi gonfi di apprensione aspetto. Magari una risposta ovvia, magari un invito ad affidarmi a lui o a un santo o a Buddha. Invece Lombardini mi chiede se ricordo che fine aveva fatto quel Cristo e per quale motivo avesse fatto quella fine.
Allora io comincio lentamente – a dire il vero molto lentamente – a comprendere, a uscire dal guscio, a capire che il bruco potrebbe diventare farfalla. Ma solo in quell’attimo, nella fessura plateale di una libertà agognata, solo in quell’attimo , mi rendo conto che quel Cristo, quel figlio di Dio è finito in croce e c’è finito innocente.
Sono innocente dico io.
Non basta essere innocenti risponde Lombardini mentre chiede di uscire dalla stanza. Occorre essere convincenti.
E io, cristo povero e inutile decisamente non lo sono.
Otto mesi. otto mesi di cella e di aria stagna, di aria che non si muove. Arriva il caldo. Che fuori chiamano estate. Non da queste parti. Ci si rende conto del cambio di stagione solo quando dentro la cella non c’è più spazio per respirare. E quando arriva l’avvocato con un nuovo “fresco lana”.
Blu.
E con un sorriso di chi deve andare in vacanza. E con una penna che non scrive e con uno sguardo che non osserva. Quando esco, avvocato, quando esco? Al processo, mi dice l’avvocato, al processo. Che nessuno sa quando si dovrà celebrare.
Aspettai quattro anni e quattro estati e quattro inverni e milioni di facce e di occhi tristi e di piedi e di mani che si incontrano e parole che non conoscevo diventavano il mio nuovo vocabolario: domandina, ora d’aria, colloquio, direttore, sezione, braccio destro, braccio sinistro, mi taglio, sciopero della fame, Magistrato, guardia, Superiore, appuntato, secondino, sopravvitto, quando esco, branda, sto sclerando, sto impazzendo, OPG. Che non sapevo neppure cosa fosse questo Opg e lo conobbi per davvero. Dopo un anno di isolamento cominciai lo sciopero della fame e si decisero a mettermi in compagnia con altri detenuti. Era un piccolo passo. Dopo un anno potevo guardare la televisione – le previsioni di un tempo che in carcere non c’era – e leggere qualche giornale dove non appariva nessuna notizia di me, di Cau, del processo, di tutto quello che mi era accaduto. Come se non fosse mai esistito. Come se per un anno non avessi mai respirato. Continuai lo sciopero della fame. Avevo ottenuto la compagnia, probabilmente avrei ottenuto anche la scarcerazione, una rivisitazione delle carte. I radicali, con i loro scioperi, mi dicevano i compagni detenuti, ottenevano tutto. La mia conquista fu, invece, l’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino.
OPG
Una sigla oscura, dura e perfida. Cercare il vuoto negli occhi degli altri e non capire che il buio e l’orrore infinito stava implodendo dentro la tua anima fino a renderla evanescente, lontana, distratta. Letti bianchi camici bianchi pastiglie bianche denti bianchi sorrisi bianchi. Nel vortice del buio c’ero solo io, puntino nero dentro un bianco che rincorreva le urla strazianti e le richieste di aiuto, di poter, in qualche modo, fuggire. Il carcere ti regala una grande possibilità: poter fare i conti con i tuoi pensieri. Dentro l’Ospedale psichiatrico questo non era possibile.
Rientro a Cagliari e quella galera appariva come una conquista quasi sperata nelle notti acide e perverse di Montelupo. Ma era solo un attimo, un arcobaleno dentro un temporale che non passava. Continuai lo sciopero della fame. Era il mio unico grimaldello contro un muro che cominciava ad essere ormai insormontabile. Non ottenni niente. Solo ossa che si affacciavano ad una carne che spariva. Dimagrivo, mi indebolivo, mi sfiancavo, cercavo risposte negli occhi degli altri e non capivo che il pentagramma delle parole era muto: nessuna biscroma per complemento. Capii che avrei dovuto aspettare il processo.
Che arrivò. A febbraio del 1982. Un teatro ben costruito. Rispetto agli interrogatori in carcere.
La recita era più corale, si passava dal trillo del diavolo di Lombardini al concerto numero tre in flauto maggiore di Mozart, che ascoltavo spesso quando ero a casa mia, davanti al caminetto. Perché amavo la musica classica e le sue vellutate rotondità. Mi trasportavano dentro un mondo animato di rumori dolci, sinuosi, leggeri. Ma sapevano anche farmi correre velocemente, ansimare, ripercorrere strade e voci e mani e corpi. Come un processo con troppe persone. Troppi attori e qualche comparsa. Io, attore principale insieme ad altri 92 imputati mi sentivo piuttosto spaventato. Agitato e irrequieto. Potevo vincere o perdere, potevo dimostrare di essere innocente o potevo non riuscirci ma non era questo il punto. Anche in questo caso la mia vita, i miei occhi, i miei pensieri e, soprattutto, le mie giustificazioni camminavano sui rimbrotti di un oboe, su violini quasi nascosti, su clavicembali impauriti, all’interno di un’orchestra stonata, costruita alla rinfusa, con un direttore d’orchestra non essenzialmente bravo a comprendere le tonalità, i passaggi, le pause, la delicatezza delle parole e dei silenzi che si accompagnavano e gli impercettibili sussurri di una musica che non era semplice da interpretare.
Passarono dieci mesi e un giorno successivo al mio compleanno carcerario, dopo quattro anni e un giorno vengo scarcerato: assolto per insufficienza di prove.
In quei momenti non si pesano le parole, piuttosto si diradano e si sfoltiscono tra tante altre che parlano, invece, di condanne. Ergastolo, trent’anni. Carcangiu Egidio assolto. E’ musica che passa diluita, che converge dentro sentimenti tiepidi e dolci, flauto che si inabissa nelle fessure più remote e suona ben temperato.
Assolto è una parole che dipana cime tempestose, addolcisce i muri e leviga la cella, lo sgabello, la branda, la grata, il blindo.
Assolto è una parola che cancella volti e situazioni e parole utili solo a chi sta in galera.
Assolto, senza dover presentare nessuna domandina.
Sollevato dal carcere e dalle sbarre. Liberato nel corpo che riprende a vivere e a nutrirsi davvero. C’erano piccole nuvole all’uscita del carcere il 20 dicembre 1982. Piccole nuvole che si addensavano. Ma non coprivano tutto il cielo. Da Cagliari a Sadali con la sinfonia numero sei di Ludwig Van Beethoven che corre con i fiati e i violini e le curve e l’acqua che appare, sempre più forte, sempre più lieve, gocce che toccano l’asfalto e quasi lo lucidano e la sinfonia della tempesta che si placa e i colori del mio paese e quell’incrocio maledetto che faccio finta di non vedere.
Il rombo di Beethoven che si squarcia quando apro la mia casa fredda che presto si scalderà del mio sangue rappreso.
Assolto.
Che non basta.
Perché le parole hanno un peso specifico nelle aule della giustizia e cesellano altri significati. Dipende da chi le pronuncia e chi le scrive. Ma non basta. Dipende, anche, da come vengono accompagnate, piccole interlocuzioni che, da sole, costruiscono un disegno che si estende nelle praterie della libertà ma, se congiunte ad altre parole, ne offuscano la vastità e ne limitano l’orizzonte.
E apparvero le nubi. Da subito. Cirri bianchi e vaporosi che non riuscivo a soppesare. Almeno all’inizio. Capii dopo qualche giorno. Appena trascorse le feste. Che il calvario non si era concluso.
Il Sostituto Procuratore della Repubblica di Cagliari, Dr. Ettore Angioni interponeva appello, ovvero non era d’accordo con la parola assoluzione o meglio, probabilmente, quello che era stato ritenuto insufficiente nel primo grado era abbastanza sufficiente per lui per richiedere una condanna.
Il 22 dicembre 1982 il Procuratore presentava appello riservandosi di illustrare i motivi a sostegno della impugnazione.
Sono le regole del gioco. Disse l’avvocato. Un gioco che, in realtà, non avevo scelto di giocare, anche perché non lo conoscevo e avevo capito, da subito, che le regole erano contorte, difficili, legate alle parole e non vi era spazio per la musica.
Sono le regole del gioco. Non si preoccupi, continuava l’avvocato. Ma lo diceva con occhi che non sorridevano, gli stessi occhi che notavo nel bar di paese, dove i saluti erano monosillabi e i dialoghi smorzati. Assolto perché non c’erano le prove. Perché non le avevano trovate, perché non si potevano trovare, perché erano state nascoste, perché si potevano costruire, perché erano dentro altre verità contrastate, perché nel dubbio si assolve ma non è detto, perché la verità non è quella dei processi, perché non è quella che racconti, perché queste, insomma, sono le regole del gioco.
Le regola del gioco decidono il 25 novembre 1985, un mese prima di natale, di non credere all’assoluzione per insufficienza di prove e, a parziale modifica della precedente sentenza, mi condannano insieme a Cau Egidio, alla pena di anni 17 di reclusione.
Condannati.
Io e Cau, Cau ed io.
Avevo imparato, in carcere, a contare i giorni e le ore e gli attimi. Avevo scontato 4 anni e un giorno, mi rimanevano 12 anni e 364 giorni di domandina, ora d’aria, colloquio, direttore, sezione, braccio destro, braccio sinistro, mi taglio, sciopero della fame, Magistrato, guardia, Superiore, appuntato, secondino, sopravvitto, quando esco, branda, sto sclerando, sto impazzendo, OPG.
Andiamo in Cassazione, dicono gli avvocati. Sono le regole del gioco. Un gioco che non ho mai capito e non riuscirò mai a capire. Perché non è un gioco, ma una rappresentazione. E le rappresentazioni hanno regole che difficilmente possono essere condivise da tutti. La condanna ha la sua sacralità e i suoi giochi. La Cassazione non regala nessuna speranza e conferma definitivamente la sentenza d’appello. Diciassette anni: ruvidi, da macinare, da solcare nei giorni e nei minuti, in spazi che non hanno nessun colore. Vago nelle carceri di Cagliari, Alghero e Lanusei, dove esco in semilibertà.
Ritorno in paese con la liberti tasca. Quella definitiva.
Adesso le nuvole si sono diradate, allontanate, non ci sono piogge sospese, che attendono.
In paese quando deve piovere, piove e quando decide per il sole, il cielo è azzurro, libero.
Mi porto indietro uno zaino di ricordi amari, adesso che continuo ad occuparmi di pecore e, nel mio piccolo universo racconto pillole di sofferenza a chi passa da queste parti. A chi può capire e a chi non ha intenzione di rendersi conto che a volte non basta essere innocenti.
Devi anche dimostrarlo.

Cagliari, Gennaio-Aprile 2010.