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Farik l'aviatore

Farik l’aviatore

Passavano gli aerei su un cielo asciutto e senza troppi colori. Denso e arroventato. Passavano gli aerei come mosche su una torta, con i loro pungiglioni e i rumori assordanti. Lasciavano una traccia lunghissima, come una ferita. Lui colorando gli occhi di deserto e lontananza, osservava caracollando sulle parole che non arrivavano. Ma aspettava e tentava di capire quel volo a cosa potesse servire. E sperava, un giorno, di poter mettere le ali per superare dune e sangue rappreso, lacrime condensate e facce da dimenticare. Un giorno. Che non arrivava.

Volerò un giorno. Per sorpassare questo muro che non mi appartiene. Che mi ha rubato gli anni di una vita ancora da spendere, che ha deciso, unilateralmente come finisce il mio orizzonte. Grigio e con un contorno di filo spinato. Quando piove, davanti al muro, non vedo le gocce che raggiungono il prato che non ho mai visto dall’altra parte. E non so neppure se c’è un prato o dei bambini che come me guardano quel grigio che li sovrasta. Mio padre, Rameshid il corto, dice che il mondo non è allegrodalla parte degli  israeliani. Che dividono i loro figli in autobus diversi per andare a scuola. Per paura che il mezzo salti per aria. Almeno ne salvano uno. Mio padre, Rameshid il corto, non so se dica la verità e se davvero gli israeliani siano tristi ma un mio amico, Jushia, ebreo, ha sempre un sorriso da regalare e non sa neppure cosa è la tristezza. Mi ha detto, un giorno, quando ancora ci si poteva incontrare, che questo muro non è insuperabile. Ha detto che ci vuole internet e che se ci scriviamo in qualche chat possiamo parlarci e distruggere il muro. Ho risposto che ci vuole un aereo, qualcosa per superarlo e che io non ho il computer e non averlo significa avere un muro nel muro. Diventerò aviatore e quando sarò in alto nell’azzurro più azzurro sopra le nuvole basterà un colpo d’ala e il muro non ci sarà  più.
Mio padre, Rameshid il corto, mi dice che non diventerò mai un aviatore perché ci vogliono molti soldi e il mio destino è stare da questa parte del muro. Per sempre. Mio padre, Rameshid il corto non ha idee ed è molto stanco e non vuole capire che i bambini hanno invece voglia di saltare quel maledetto muro. Che poi, alla fine è, come dicono i grandi, una questione di principio.

Ma per  i grandi, aggiungo,  è anche una questione di soldi e noi, nella nostra casa,  non abbiamo praticamente niente. Mia madre, Nashja la dolce non ha più nemmeno latte per  mio fratello Mourad l’antico. Lo chiamo così perché è piccolo come un cavallo di legno antico che ho ereditato forse da mio nonno Hassud l’ebreo, perché lui, ai suoi tempi con gli ebrei ci andava d’accordo. Anche io vorrei essere come lui. Ma non ci sono soldi e non c’è volontà.
Hanno costruito un muro per paura. Di che cosa non si capisce. Qui si muore da tutte le parti: In Israele e in Palestina. Terre antiche dicono mio padre, mia madre e anche un vecchio senza denti che suona tutti i giorni un’armonica. Dice lui che se ne frega del muro. Basta la musica. E questa storia del vecchio senza denti mi piace. Da grande voglio fare l’aviatore che vola più in alto del muro e planare sulle nuvole suonando l’armonica, così riempio il cielo di musica.
La mia maestra, Barnasa la bianca, perché è bianchissima, almeno davanti alla mia pelle, mi dice che i sogni si devono coltivare. Come l’insalata dico sorridendo. Con più radici dice Barnasa la bianca. Allora occorre avere almeno un pezzo di terra per coltivare i sogni. Non serve, risponde Barnasa la bianca. Basta chiudere gli occhi.
Allora io, da grande, diventerò un grande aviatore che supera i muri di tutto il mondo e che suona alle stelle e coltiverò di sogni tutte le terre che vedrò da quel cielo stellato e canterò una canzone con le note di un’armonica a bocca. Porterò sull’aereo anche mio nonno che saluterà i suoi amici ebrei sulla terra d’israele, comprerò cento capre a mia madre per usare il loro latte per  mio fratellino. Chiederò a mio padre di sorridere a tutti, che l’allegria nasce dalla felicità e io ho deciso di coltivarne un deserto. Dune comprese.

Passavano gli aerei su un cielo asciutto e senza troppi colori. Denso e arroventato. Passavano gli aerei come mosche su una torta, con i loro pungiglioni e i rumori assordanti. Lui con tutti i sogni arroventati li guardava con una mano sulla fronte. Non sarebbe diventato un aviatore. Perché, in fondo, il volo non appartiene all’uomo e l’aereo è solo un mezzo. Non sarebbe diventato un grande musicista in grado di distribuire note in mezzo al cielo, ma strimpellava la chitarra che qualcuno, da qualche parte del mondo, ombelico nascosto di terra, gli aveva regalato per Natale. Non aveva orti o deserti da coltivare. E il futuro era davvero incerto. Aveva un piano però. Che non raccontava a nessuno. Faceva parte di un segreto. Una matita e un foglio bianco. E la maestra Barnasa la bianca che correggeva. Scriveva. E correggeva. Rivedeva, riprovava e la maestra non approvava. Poi, quel foglio sembrò perfetto. E lo spedì. Per posta aerea. Per volare in alto.

Caro presidente Obama,
lei che con lo stesso colore della mia pelle – più o meno – è riuscito a diventare un persona molto importante, molti dicono il numero uno nella terra, può, se vuole,  fare l’aviatore, suonare l’armonica e distruggere tutti i muri che si sono. Magari anche in America. Io questo non lo so. Ma gli chiedo un piccolo favore. Volevo volare in alto ma i soldi bastano solo per questa lettera in posta aerea, volevo suonare sopra le stelle, ma conosco solo pochi giri armonici di chitarra, volevo coltivare un sogno dentro la mia terra, ma è difficile nel deserto che le lattughe attecchiscano, figuriamoci i sogni.
Allora mi rivolgo a lei. Vorrei venire a New York. Per qualche giorno. Così, almeno posso provare l’aereo. E vedere il muro dall’alto. Lo vorrei disegnare. Perché ho un’idea. Signor Presidente, vorrei andare a vedere il ponte di Brooklyn, quello che unisce il mare con la terra. Lo vorrei disegnare. E poi chiedere come si fa a trasportarlo, magari a pezzi, o comunque trasportare degli uomini che si mettano a costruire un ponte. Mi serve perché dalle nostre parti cìè un muro che mi limita l’orizzonte e lei, Presidente Obama ha sepre detto che dobbiamo guardare lontano. Che ne abbiamo il diritto. Io non ci riesco e non è molto giusto che un bambino non possa coltivare i propri sogni. Sulla coltivazione ho preso lezioni e mi dicono che tutto è possibile. Lei, nella sua campagna elettorale aveva uno slogan: WE CAN. Mi dicono che significa si può fare. Ecco, signor Obama, anche questa cosa del ponte si può fare anche perché, a Betlemme i miracoli, a volte riescono. Ciao Presidente. Aspetto.
Ah, dimenticavo, mi chiamo Farik l’aviatore. Non ho cognome, ma da queste parti non serve. Anche Gesù,quello dei miracoli, mica ce l’aveva il cognome  e ha funzionato ugualmente.
Farik l’aviatore scruta il suo limitato orizzonte e giocando su un giro di Do di una chitarra arrivata da non troppo lontano si guarda il muro e strimpella. Il ponte magari non riuscirà a costruirlo, ma ha comunicato a tutti che quel ponte gli serve per poter crescere. Le idee non si possono realizzare, a volte, ma è bello farle conoscere. Un po’ come quell’altro che citava Farik: ci ha lasciato parole difficili da comprendere fino in fondo, ma ci ha regalato la speranza che un ponte, una busta di parole, tra uomini di buona volontà può servire.
Farik l’aviatore, aspetta. Con la sua chitarra e con il suo sguardo smorzato. Aspetta di poter crescere e contare le stelle. Di tutto il firmamento.