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Ruote di scorta

Ruote di scorta

RUOTE DI SCORTA

 

Questa è una storia falsa. Palesemente falsa. Ma vorrei fosse vera. E’ la storia di un giorno, il 16 marzo del 1978,  che ha cambiato la nostra storia. E’ la storia dei ragazzi della scorta di Aldo Moro che morirono senza avere l’attimo di comprendere. Loro non hanno vissuto  i 55 giorni seguenti, non hanno vissuto l’adrenalina dei comunicati, loro non sanno di Via Gradoli, di Via Montalcini, del lago della duchessa, non sanno che molti uomini dello Stato servivano anche la loggia massonica segreta P2, loro sono stati semplicemente ammazzati e non possono testimoniare di quanti fossero i brigatisti e da che parte hanno ucciso, cosa è accaduto nel lato destro di via Fani.

Questa è una storia falsa. Palesemente falsa. Ma vorrei fosse vera. Ho immaginato che Raffale Jozzino, un uomo della scorta di Aldo Moro,  fosse sopravvissuto. Jozzino aveva solo 25 anni e oggi ne avrebbe solo 65.

Ecco, in memoria di Raffaele Jozzino e degli altri uomini della scorta ho ripercorso quel giorno, quel maledetto giorno che continua tutti gli anni a presentarsi davanti alla mia memoria. Oggi, il 16 marzo,  vorrei dedicarlo alle ruote di scorta, a quegli uomini quasi sempre dimenticati, come Raffaele Jozzino, di Casola, una paese della provincia di Napoli. Lui il 16 marzo 1978  si trovava nel sedile posteriore dell’alfetta che precedeva la Fiat 130 in cui si trova il Presidente Aldo Moro. Riuscì a scendere dalla macchina e, non visto, a sparare dei colpi. Ma il fuoco incrociato dei brigatisti lo uccise senza che egli potesse colpire nessuno.

Oggi avrebbe 65 anni e sarebbe già in pensione. Ho immaginato che lui, Raffaele Jozzino fosse ancora vivo, con noi, a raccontarci quegli attimi lontani, quegli attimi che a noi, allora ventenni,  ci rubarono l’innocenza.

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So benissimo che adesso, in questo attimo di calma, il Dott. Sermonti farà il suo ingresso dentro la stanza e con un mezzo sorriso mi dirà: “Andiamoci a prendere un caffè”. Lo fa tutti i giorni, con la stessa voce arrotolata e gutturale. Lo fa da circa dieci anni. Lo farà anche stamattina, anche se oggi, almeno per me, è una giornata particolare.

Ho messo da parte le ultime cose, le agende, le foto, i quadri di Marta, mia figlia che dipinge piccole e colorate casette. “Siete sempre così grigi in quella Questura” e io a tentare di rispondere e non riuscirci.

Non siamo più grigi, vorrei ribattere, ma con Marta mi mancano le parole. E’ nata nel 1979, a marzo. Un anno dopo. Un anno esatto dopo il maledetto fatto. Ha dentro il colore di quello che ho visto e che mi porto dentro da sempre. Perché gli occhi non dimenticano e le orecchie annusano e percepiscono  i rumori, ma nonostante tutto non sono mai riuscito a fermare l’attimo. L’ho detto e ripetuto più volte, anche ai miei superiori, al magistrato che curava l’inchiesta. Non riesco a definire i contorni. Ho sempre dentro tutto, minuscoli  frammenti che ruotano e si muovono e si contorcono e non si fermano. Come i quadri di Marta.

Piccole case senza finestre e con soli portoni.

Senza contorni. Marta è così. Densa e chiusa come i suoi quadri e, a suo modo impenetrabile.

Il Dott. Sermonti non si affaccia ancora alla porta. Ho tutto il tempo per rimettere dentro le scatole di cartone anche i vecchi libri che mi porto dietro. Dal 1978 non ho più acquistato più nulla. Né saggi e neppure romanzi.  Avevo deciso, per anni, che quella data sarebbe stata il  mio punto d’arrivo, che da quel giorno  non sarei dovuto mai più ripartire per nessun luogo. Il 16 marzo 1978 era il mio non luogo. Facce che incontravo tutti i giorni, tutte le mattine. Quelle del Maresciallo Oreste Leonardi e di Domenico Ricci; i baffi folti e neri di Francesco Zizzi e il piccolo – lo chiamavamo tutti così, perché aveva appena 25 anni – Giulio Rivera. Infine lui, il Presidente. Perché nessuno lo chiamava con il suo nome. Per tutti era il Presidente.  Quando si è giovani, in realtà, non si capiscono molte cose e non si capisce, soprattutto, quanto sia importante la politica, nel senso alto e ridondante del termine, le luci e le ombre, gli amori e le passioni ma anche i tradimenti, i giochi e i sotterfugi, le mosse discrete, quelle false e quelle inverosimili di  uomini che la governano e la gestiscono e di quelli che la subiscono. Il Presidente era quello che scriveva la storia di questo paese e il Maresciallo Leonardi ce lo ricordava sempre: “Il Presidente non fa parte dell’attualità. Lui è oltre. E’ dentro la storia”.

Il Presidente.

Che per me, che partivo da Casola con tutto il mio sud dentro le tasche e l’anima di Masaniello e Pulcinella e i colori, quelli forti della mia Campania, il Presidente rappresentava  solo uno che appariva in televisione anche  quando, nel 1977 mi chiedono ad Alessandria, dove avevo frequentato il corso e dove ero rimasto per circa sei anni, se volessi andare a Roma, al Viminale.

Dico subito di si, perché Roma ha sfumature diverse ma simili a quelle  di Napoli, perché ad Alessandria quando parcheggi la tua automobile devi segnarti la via e il numero civico, perché la nebbia avvolge tutto e quel fiume minaccioso non mi è mai piaciuto ed allora dico subito si a quella richiesta e quando arrivo a Roma Termini, agitatissimo, non so dove andare e per fortuna c’è un poliziotto al quale  chiedo che autobus devo prendere per andare alla caserma Viminale.

Quello mi guarda e sorride e mi chiede da dove vengo e chi sono e io sempre con sorriso dolce del sud gli racconto che sono praticamente fuggito da Alessandria che ha un fiume e la nebbia, una fortezza sempre chiusa e non si capisce a cosa possa servire e, soprattutto,   non ci sono colori e non ci sono rumori importanti; gli dico   che fa freddo ma un freddo falso e che ritorno a Roma vicino alla mia casa e alla mia mamma e che magari riesco ad avvicinarmi a Napoli che io a Roma ci sono venuto di corsa e se questa caserma è fuori dalla città pazienza,  perché comunque riuscirò a scorgerla  anche da lontano, perché il sole che osservo a piazzale dei Cinquecento è lo stesso sole che mi rassodava  la pelle a Napoli, a Mergellina,  quando con i miei amici fuggivamo da Casola.

Il poliziotto mi chiede se voglio bere un caffè e ci avviciniamo ad un piccolo chiosco, dove tutti ci guardano perché controllano la nostra divisa e nel 1977, a Marzo – c’è sempre marzo dentro il mio destino – Roma ha un umore  molto più livido di quando l’avevo annusata  la prima volta nel 1975.

A Marzo.

“Puoi andare a piedi” dice il poliziotto.

“Devi solo arrivare ad una piazza con una grande fontana, Piazza Esedra o Piazza della Repubblica e poi proseguire per via Nazionale. Sulla sinistra dopo una serie di vie dedicate alle città: Torino, Napoli, Genova trovi via Milano. La imbocchi e, sulla destra, vedrai un grande palazzo costruito su un colle. Il colle del Viminale, le sede del Ministero dell’Interno.”

“Non è il nome di una Questura”, dico io.

“No”, risponde il poliziotto e, mentre paga il caffè, mi guarda con occhi contempalitivi e aggiunge: “Stai attento ragazzo. Fa queste parti non si scherza. Forse era meglio la nebbia di Alessandria”. “No”, rispondo con molta sicurezza, “i nemici dentro la nebbia non si vedono”.

“Ma qui non sappiamo chi sono i nostri nemici”, dice lui e mi stringe la mano. “Buona fortuna” aggiunge  in mezzo a Piazza dei Cinquecento, sotto un grande palo, dove c’è un grande cartello dove c’è scritto Osram.

Buona fortuna. Che per me è molto.

Marzo 1977. Da Alessandria al Viminale.

Il Dott. Sermonti è di solito puntuale ma, trattandosi di una giornata speciale, probabilmente è impegnato negli ultimi preparativi che mi riguardano.

Al Viminale non è facile entrare e il mio foglio di viaggio che ha bisogno del “visto arrivare” da parte di qualche maresciallo, non riesce a giungere a destinazione. Ci metto circa un’ora prima che riesca a capire dove mi trovo e quale sarà la mia occupazione. Poi, arriva un signore non in divisa. Si ferma davanti a me. Pantalone scuro, maglione di un verde esagerato. Come i suoi occhi. Mi chiede di consegnargli il foglio e con voce bassissima dice: “Sai guidare?”

“Si”, rispondo, “Se non c’è nebbia. Sono uno del sud.”

“Lo vedo” dice lui “e lo sento dal tuo accento. Mi hanno parlato bene di te”, continua l’uomo senza divisa, “mi serve un quinto uomo per la scorta”.

“Bene” dico io, “la scorta di chi”?

“Del Presidente” risponde lui.

Del Presidente.

E io lo guardo e non capisco. Dovrei ribattere che ci sono molti presidenti e che fare la scorta è un mestiere che non conosco e che magari non sono all’altezza.

“Non sono bravo a sparare” dico, così per giustificare la mia faccia senza espressione.

“Meglio” risponde lui, “non dobbiamo sparare, dobbiamo solo proteggere il Presidente. La scorta è un deterrente, se qualcuno decide di ucciderci lo farà e noi non riusciremo neppure a levare dalla fondina la nostra pistola di ordinanza. Dobbiamo solo trovare un semplice diversivo  alla morte.”

Fa una breve pausa senza definire lunghi orizzonti e aggiunge: “ Il presidente ha bisogno di una scorta solo per mantenere alta la  tensione e tutti quelli che ci vogliono provare sanno che ci sono uomini disposti a tutto”.

“Ma io non so se sono disposto a tutto”, dico abbassando gli occhi e controllando le sue nodose e lunghissime mani. Da pianista.

“Lo sei, tutti lo siamo. Siamo disposti a vivere, nonostante non l’abbiamo scelto e  siamo disposti a morire, anche se ci dispiace,  l’importante è non farlo in maniera eccessivamente vivida. Bisogna morire in silenzio, senza creare grossi polveroni.”

“Il mestiere di scortare il Presidente non è di quelli silenziosi”, dico io. “Lo so”, risponde lui e mi viviseziona con i suoi occhi verdi e penetra sempre più a fondo, quasi a cercarmi l’anima che balla in un cortile colmo di sole.

“Lo so, ma il Presidente ha bisogno di noi. Io sto con lui da vent’anni e conosco ogni suo gesto e ogni sua parola. Non è quello che dipingono: serio, grigio, solitario, distaccato. E’  invece uno innamorato della luce. Mi dice sempre: Oreste, pensa, se nel paradiso ci fosse la luce;  sarebbe bellissimo. E tu hai la luce necessaria che serve al Presidente.”

Così il Maresciallo Oreste Leonardi mi ha assoldato nella scorta del Presidente.  E io sono riuscito a fare il mio dovere sempre. Con assoluto senso del dovere. Fino al 16 marzo 1978.

Il codice su cui avevo studiato: Giuffrè editore, 1975. Un po’ datato, soprattutto superato, ma non ho mai acquistato nessun altro codice dopo. Non ne ho mai avuto bisogno. E’ come guardare una pianta ormai cresciuta. Nei primi anni la si cura, la si osserva, si misurano i centimetri di crescita, i suoi primi frutti. Poi, quella pianta che aveva procurato ansia e preoccupazioni, in un attimo  non ha più bisogno se non di acqua, gocce di acqua che la faranno vivere. Quella pianta non dovrà più crescere e non dovrà più stupire. Sarà normale, ottenere da lei dei frutti. Normale.

Dopo quel giorno la mia vita è stata “normale”.

Senza nebbie.

Non ho più avuto la necessità di scrivere su un foglietto la via per trovare la macchina, non ho avuto quasi nessun problema familiare: nel 1979, a Marzo è nata Marta che ha inseguito i suoi sogni e oggi è un’affermata pittrice di casette gonfie di colori ma senza finestre. Mia moglie ha i ricordi  di Napoli e i sorrisi forti ma è sempre stata di poche e misurate parole. Sembra strano, ma da quel giorno, dal 16 marzo 1978 tutti hanno silenzi più lunghi, contemplativi.

Non sarei voluto andare via così. Lasciare la questura dopo 37 anni di servizio.

Il Dott. Sermonti avrà preparato un discorso celebrativo, magari un po’ più lungo di quello che hanno letto lo scorso anno a Mazzei, il collega della scientifica che ci abbandonava dopo quarant’anni di servizio.

“Non ci sono più uomini così attaccati alla divisa”, disse in quell’occasione il Dott. Sermonti.

Oggi tutti vanno in pensione subito, appena raggiungono il minimo. Mazzei invece ci abbandona dopo una vita passata in polizia, al servizio dello Stato. Dopo una piccola medaglia firmata dal presidente della Repubblica, un orologio acquistato da tutti noi della questura e spumante e pasticcini. Mazzei, in pensione dal Marzo 2017. Come una strana coincidenza. Il mio calendario sembra avere solo questo strano mese. Marzo. Tutto sembra ruotare dentro un mese freddo e forte, duro, che non regala troppo sole e non permette di emettere sorrisi e non è un mese di luce, come direbbe il Presidente. Se ci fosse ancora.

Anche Oreste Leonardi era un uomo di Agosto o di Maggio, come Domenico e Francesco e Giulio. La scorta del presidente. Che il 16 marzo 1978, alle ore 9,15 in via Mario Fani, angolo via Stresa, in una strada medio signorile ha deciso di scardinare le immagini e non sentire i rumori e la successione della vita.

Tutti mi chiedono sempre di raccontarlo quel giorno. Come se fosse facile. Tutti hanno scritto, filmato, rappresentato, romanzato, cantato.

Tutti.

Ma non c’erano.

Non erano dalle parti della Camilluccia quel giorno. Il giorno del Presidente. I miei occhi come scanner che attimo dopo attimo, centimetro dopo centimetro, colore dopo colore, registrano  rumori e silenzi, sirene e spari e gruppo di fuoco e nomi che ritornano e che non riportano alla storia che non riesco a raccontare a rimettere a posto, i vetri si sono spezzati e le schegge non si ritrovano, i palazzi sono senza finestre e con i colori densi. Come quelli che disegna Marta.

E io, seduto con questa scatola che sono i miei ricordi, aspetto il Dott. Sermenti che, come ogni giorno mi inviterà un caffè. Lo fa sempre, dal 16 marzo 1978. Ma io, da quel giorno non sento nessun sapore.