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Non tutte le notizie sono uguali. (La Nuova Sardegna, 27 settembre 2017)

Non tutte le notizie sono uguali. (La Nuova Sardegna, 27 settembre 2017)

Prima giudicare occorre capire. Sembra una frase semplice e apparente lo è perché è l’assunto filosofico in cui si dovrebbe fondare la sociologia del diritto, quella che analizza il sistema complesso in cui gli elementi contribuiscono a stabilizzare il tutto. In un mondo dove i conflitti sono ormai quotidiani, oggi ci troviamo davanti una vera e propria rete che governa le organizzazioni. Siamo – e lo diciamo da anni – all’interno di una società globalizzata. Poi però, quando accade qualcosa di eclatante in qualche remoto luogo di provincia, tendiamo a “nazionalizzarlo”, a renderlo più grave di quanto sia in realtà. Sono impulsi sociali che seguono la cosiddetta “pancia del paese” e che stanno lentamente ed inesorabilmente occupando in maniera massiccia le prime pagine dei giornali. Perché inseguiamo la storia di un omicidio, di uno stupro, di una violenza e vogliamo subito conoscerne le motivazioni? Perché abbiamo bisogno di essere rassicurati. Noi, che viviamo nel conflitto quotidiano, vorremmo un mondo lineare, semplice, che dia risposte chiare che servono a farci vivere “meglio”. Siamo portati a giudicare perché ci vuole meno fatica, ci servono pochissimi elementi e siamo in grado di gettare la sentenza: se a stuprare è un extracomunitario ci si accanisce su tutti gli stranieri presenti in Italia, svizzeri compresi. Se a farlo sono due carabinieri non per questo tutta l’arma è marcia. Ed è vero. Se ci fate caso abbiamo usato da subito due modi spicci per giudicare davanti allo stesso orribile reato. Lo straniero abbraccia tutti i suoi conterranei e l’assunto è: tutti gli stranieri stuprano le ragazze; i due carabinieri che violentano due ragazze (peraltro extracomunitarie ma nell’immaginario collettivo sono “americane”) hanno commesso un terribile reato ma quel reato è esclusivamente “personale” come dovrebbe essere sempre. Ci siamo portati appresso, noi sardi, per anni la fama di “sequestratori” ed era difficile dover spiegare ogni volta che i sequestratori di persona rappresentavano una quota misera davanti al quasi milione e mezzo di isolani. Eppure quello strano gioco ha funzionato. Perché ha lavorato sul giudizio e non sulla comprensione. Siamo cresciuti per stereotipi e se il sardo è sequestratore, diffidente e solitario, il siciliano è mafioso, il napoletano camorrista. Siamo tutti caduti nella trappola del giudizio facile. Poi, d’un tratto è arrivato internet, i social, la pagina che ognuno di noi ha a disposizione per dire come la pensa dopo aver letto frettolosamente alcune notizie senza neppure verificarle.  Andate a leggervi i commenti su alcuni stupri commessi da stranieri e poi leggetevi quelli legati al reato che avrebbero commesso i due carabinieri (che, ricordiamo sono solo indagati come gli altri imputati). Troverete un modo di giudicare completamente diverso: da una parte una condanna con insulti e dall’altra una sorta di silenzio mediatico e qualche appunto relativo al modo di vestire e di bere in maniera eccessiva e smodata di certe donne. Cose che negli anni parevano scomparse. Mi è capitato di ascoltare un discorso in un bar di Sassari, di primissimo mattino. Un signore dopo aver letto il titolo relativo al progetto che coinvolge Sassari e il bike sharing e, dunque, le piste ciclabili, ha in un attimo sentenziato: “le piste ciclabili a Sassari non servono perché le usano i negri. Sono loro che hanno le biciclette”. Poteva leggere l’articolo e successivamente criticarlo. Non lo ha fatto. Si è fermato al titolo. Ma, soprattutto,  sapeva benissimo che quella che stava raccontando era un’iperbole, sapeva perfettamente che non era vero. Ma faceva presa.  E’ quello che tutti, più o meno fanno da moltissimo tempo, superando quella sociologia del diritto che prevedeva, invece, la comprensione dei fenomeni, l’analisi dei conflitti, la possibilità di “capire”. Mio nonno diceva sempre: a parlare ci vuole poco. A pensare quello che stai per dire è più difficile. E in giro, a quanto pare, c’è troppa gente che parla.