Storie di partigiani – La nuova Sardegna 9.2.2017
C’è una storia che va raccontata in contrapposizione a quella tristissima che è accaduta a Vasto. Una storia d’altri tempi, dove l’incrocio dei destini rivela quanto gli uomini riescono ad essere migliori delle loro azioni e quanto il tempo riesce a smussare gli angoli del rancore. Siamo nella notte tra il 6 e il 7 luglio del 1945 e la seconda guerra mondiale era finita da meno di due mesi. Nel carcere di Schio, nell’alto vicentino si trovavano reclusi detenuti politici che avevano seguito Mussolini ed erano in attesa di una sentenza da parte di un’Italia che si stava appena rialzando dalle macerie che aveva lasciato il fascismo. Quella sera i partigiani decisero di fare irruzione, armi in pugno, all’interno del carcere e uccisero 54 persone: alcuni erano detenuti comuni. Sono pezzi di storia che si ripetono sempre quando i vincitori per anni facevano parte dei vinti, sono code di violenza, di vendetta, di adrenalina pura che corre, che pasticcia il sangue con la ragione. Il Comandante di quei partigiani era Valentino Bortoloso e il suo nome di battaglia era “Teppa”. Quell’uomo, che oggi ha 94 anni, fu arrestato e processato perché quell’azione fu considerata oggettivamente una strage in tempo di pace. Fu condannato a morte insieme ad altri quattro compagni, pena commutata prima in ergastolo ed estinta dopo dieci anni di detenzione. Ottenne la libertà con molti macigni in tasca e l’impossibilità di poter tornare indietro. Perché c’è sempre il tempo della riflessione, ma arriva sempre troppo tardi. Quel giorno, quel maledetto giorno, in carcere era recluso anche Giulio Vescovi, che nel 1945 aveva 35 anni. Era il Podestà di Schio, pluridecorato capitano della corazzata ariete. Valentino e Giulio camminavano su strade completamente opposte. Quel giorno, quel maledetto giorno Giulio provò a mediare con il comandante partigiano che non volle sentire ragioni. Passavano in quel momento negli occhi di Teppa i compagni morti, la ritirata in Russia dove aveva partecipato come carabiniere, la guerra in montagna, l’odore non ancora rappreso del sangue. Giulio fu ucciso come gli altri in quella maledetta notte. Si poteva consegnare tutto all’oblio, come tante storie e molti misteri di questo paese. Ma gli uomini, di tanto in tanto, riescono a camminare sulle tele sottili dell’imprevedibilità che si materializza negli occhi e nelle parole di Anna, la figlia di Giulio che a 72 anni decide che tutto questo doveva essere superato da un abbraccio. Anna scrive a Teppa che oggi ha 94 anni e con pochissime e forti parole cambia il senso della storia: “Lei ed io siamo gli ultimi testimoni di quel mare di dolore che si è riversato su di noi nel luglio del 45. Dobbiamo cogliere la possibilità di trasmettere un autentico messaggio di riconciliazione.” Quell’abbraccio è avvenuto in chiesa, davanti al vescovo di Vicenza: un comunista e la figlia di un gerarca fascista hanno voluto superare tutto quel sangue, quell’atrocità che ha costruito solo odio e vendetta. E’ una storia che dovrebbe essere ricordata nelle scuole, serve a comprendere alcuni fondamentali passaggi e serve per raccontare la complessità dello stare insieme in un mondo sempre troppo diviso. C’è il tempo per riflettere, per capire che l’arte della mediazione è l’unica che può ricostruire la cornice sociale dove si deve continuare a mantenere e consolidare rapporti positivi. Questa storia ci regala anche un’altra morale: è difficile comprendere, molte volte, la verità e la ragione storica. Se non si superano le barriere ideologiche ognuno racconterà la sua versione ed ognuno sarà convinto di essere dalla parte giusta. L’abbraccio di Anna e di Valentino dimostrano che non esiste un’unica prospettiva per osservare la storia degli uomini. Ce ne sono molte e vanno tutte rispettate.