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A San Sebastiano resta un vuoto pieno di voci. (La Nuova Sardegna, 7.7.2013)

A San Sebastiano resta un vuoto pieno di voci. (La Nuova Sardegna, 7.7.2013)

La Nuova Sardegna, 9 luglio 2013. di Giampaolo Cassitta

 

Ci siamo guardati intorno. A soppesare quel vuoto. A capire, per esempio,  se occorreva chiuderle le celle. Se darle un’ultima mandata o se  invece lasciarle così: aperte,  per poter dire che almeno nell’’ultimo giorno abbiamo regalato la libertà. I rumori sordi di un carcere ci hanno accompagnato per anni e, per quanto riguarda S. Sebastiano,  per molti anni. Chissà quante generazioni ci son passate da queste parti: ad aprire e chiudere. A farsi aprire e farsi chiudere. Con i reati più incredibili. Il furto del vino, l’oltraggio al vigile,  le molestie a seguito di ubriachezza nei vicoli del centro storico, lo schiaffo al rivale, il piccolo spaccio, le lesioni personali, la rapina alla UPIM, lo scippo vicino alle poste, il tentato omicidio, l’omicidio e qualche strage. Ci sono passati tutti da queste parti.

Chi ha rubato le mele al mercato, chi ha sequestrato e deriso gli uomini, chi ha tentato ed è riuscito ad evadere, chi ha protestato con le gavette, chi ha vissuto nel buio delle celle, nell’umido, nella tristezza, chi ha  cercato con gli occhi e le parole e i pianti  la madre, il figlio,  il fratello, la moglie, l’amante. E anche quello che ha ucciso la madre,  il figlio, il fratello, la moglie e l’amante. Nella miseria delle scelte c’è sempre un briciolo di dignità e il carcere ha questo di buono: c’è sempre dentro tutto. Ci sarà sempre dentro tutto, ben miscelato, ben condensato. S. Sebastiano era sistemato proprio al centro della città. Un grosso acquario dove poche volte si sono sentiti gli spruzzi delle onde, le voci dal silenzio. Dove le gavette hanno suonato e la città, per la prima volta, è stata muta ad ascoltare quella musica, quell’urlo dall’acquario. Poi, un carcere viene inghiottito dalla quotidianità delle cose, dalla retorica degli eventi, dalla normalità che sovrasta. Un carcere, in fondo, interessa  solo se può creare una notizia. Era brutto S. Sebastiano. Lo era diventato negli anni. Perché lui non era cambiato davanti alla modifica legislativa e alla richiesta sempre più forte di umanità. Non c’erano docce, non c’erano bagni chiusi, non c’era spazio e non c’erano molte possibilità. Si stava sospesi, in attesa. A volte per ore, per giorni. Altre volte anche per anni. In attesa. A contare gli attimi  che trascorrevano infiniti in una rotonda dove tutto si amplificava, tranne la vita. Sono passate anche le donne e i loro figli a S. Sebastiano, occhi che non avevano orizzonti. Son passati anche gli innocenti a S. Sebastiano. A contare i silenzi e le urla di chi non sapeva più costruire il suo futuro. Son passati i sorrisi a S. Sebastiano. Pochi, a dire il vero. Ma hanno colorato quel grigio intenso denso e pesante delle condanne. Son passati i sassaresi ma non solo, i sardi, gli italiani, gli extracomunitari, le donne, i tossicodipendenti, gli ammalati, i disperati, i senza tetto, i rifugiati, gli  anarchici, gli scrittori, i politici, gli inventori. S. Sebastiano ha raccolto uomini un po’ da tutte le parti e li ha centrifugati nei suoi raggi, li ha ristretti nelle sue celle umide e con pochi spicchi di sole. Ha raccolto molta ruggine negli anni e ha solcato il destino di molti uomini. Ha distrutto e ricostruito vite, ha fatto male e ha curato.
Adesso quell’acquario, quell’immensa vasca gonfia di silenzio va via dal centro di una città perché, in fondo, ha ragione Goffman che le istituzioni totali (i carceri, gli ospedali, i manicomi, i cimiteri) si costruiscono al di fuori del tessuto urbano. Per paura, per non volersene occupare, per voler rimuovere quello che l’uomo non ama. Il carcere si spinge lontano. A Bancali. A molti chilometri di distanza da Sassari. Le camere sono luminose e per sole due persone. Bagno in camera e doccia, molti spazi e nuove possibilità. Lontano però. Sarà difficile ripartire, ma si dovrà fare.
Ci siamo guardati intorno. Quel rumore sordo delle chiavi e dei pensieri mai raccontati, quei visi che sono rughe dell’esistenza, quei detenuti, quegli agenti, quegli educatori, assistenti sociali, medici, infermieri,  quei direttori, comandanti che si sono succeduti per oltre un secolo girano tutti, indistintamente e per la prima volta la chiave nello stesso modo: aprono quel vecchio carcere. Lo aprono definitivamente per svuotarlo di quei silenzi, di quella rabbia, di quelle ingiustizie, di quelle giustizie, di quegli odori, sapori, di quelle cose intense e dure. Lo aprono perché tutti che hanno vissuto a S. Sebastiano hanno, in ogni caso, mantenuto la propria dignità. Da qualche parte, dentro le celle, nella rotonda, nei cortili passeggi, nell’infermeria, nella caserma, nel lungo corridoio degli uffici ci sono storie, frammenti di vita che andrebbero raccontati. La memoria è la forza di una città. S. Sebastiano non chiude. Si apre per la città che ha voglia di sentire le voci degli ultimi e di chi con gli ultimi ci lavora.
Ci siamo guardati intorno. A contare gli attimi, a soppesare gli umori.  Abbiamo lasciato le celle aperte  per fare uscire le voci e gettarle nel mondo. S. Sebastiano, adesso, è una carcassa che non pulsa, ma può raccontare la moltitudine di cuori che al suo interno hanno seminato battiti  per anni e hanno raccolto cassetti di vita che sono figli di questa città.