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Non riusciamo a stare a casa  (La Nuova Sardegna, 7 aprile 2020)

Non riusciamo a stare a casa (La Nuova Sardegna, 7 aprile 2020)

Dobbiamo stare a casa. Ce lo ripetono e ce lo ripetiamo da oltre un mese. E’ un dovere e un obbligo. La Presidenza del Consiglio ha promulgato una serie di norme per far rispettare quest’obbligo. E tutti – o quasi – abbiamo capito che lo stare a casa è utile, fondamentale, per risolvere la pandemia che sta ormai dilagando in tutto il pianeta.

C’è però un paese che non ha scritto nessuna norma, non ha minacciato con sanzioni pecuniarie e penali i propri cittadini e la cosa, a dire il vero, è apparsa piuttosto strana soprattutto dalle nostre parti dove non hanno mai funzionato le “grida” manzoniane e  stentano ad essere rispettati anche gli articoli che prevedono il carcere.

Lo Stato che non ha obbligato alla quarantena, almeno fino a ieri virgola è la Svezia. Devono restare a casa solo le persone trovate positive al coronavirus, le scuole continuano ad essere aperte così come gli uffici e i ristoranti. Mentre tutti noi (siamo oltre un miliardo nella stessa condizione) guardiamo il mondo da un oblò, gli svedesi sembrano vivere in una condizione apparentemente normale.

La strategia svedese si basa sulla fiducia. Il governo confida nella serietà dei campi cittadini che, a loro volta,  seguono le raccomandazioni ed evitano i vari comportamenti che possono risultare rischiosi. La Pasqua, per gli svedesi, è una festa molto importante come per tutti i paesi nordici. Mentre in Norvegia è stato proibito di raggiungere le case in montagna per sciare, in Svezia questo divieto ancora non esiste; da quelle parti il primo ministro ha raccomandato a tutti di rimanere a casa. E loro lo faranno. Non hanno, per esempio, imbastito lunghissime discussioni sulla ginnastica, sulla passeggiata, sul modo di portare i cani, sull’uso dei bambini, sull’andare ad acquistare un giornale dall’altra parte della città.

Gli svedesi hanno raccolto l’invito del loro primo ministro e diligentemente hanno agito di conseguenza: escono pochissimo, non vanno nei ristoranti, mantengono le dovute distanze, lavorano in smart working. Questo perché gli svedesi non reagiscono bene ai divieti, però se un esperto gli spiega loro come debbano comportarsi si regolano di conseguenza. Loro si fidano dell’epidemiologo di stato che davanti a numerose critiche ricevute  – soprattutto all’estero –  ha affermato che alla Svezia serve una strategia adatta alla società svedese.

La Svezia si conforma alle regole, perché l’intera società si basa sulla fiducia e crede ai propri esperti. In Italia, forse per colpa di un errato concetto di democrazia, tutti si sentono obbligati a dire la propria sulle mascherine, a ribattere, controbattere sull’efficacia di un medicinale o di un altro. Tutti hanno una propria soluzione ai mali del secolo e tutti sanno tutto del picco, del plateau, del perché il coronavirus colpisce gli anziani o giovani o le donne o bambini o gli ospedali.

Tutti siamo esperti dello scibile umano, tutti iscritti all’università della vita che, però, a conti fatti, pare non funzionare.

In questi mesi ci disperdiamo in discussioni lunghissime, complicate e noiose per poi affidarci come agnelli mansueti a coloro che l’università di medicina e di infermieristica l’hanno frequentata per davvero e loro ci ricordano che è meglio non uscire, non frequentare luoghi pubblici, usare i dispositivi di protezione individuali, stare attenti all’igiene.

Noi, a questo punto, ci stufiamo di essere stati dei mansueti dottor Jekyll e vestiamo i panni che più ci piacciono: quelli di mister Hyde e per osservare le regole che gli esperti ci suggeriscono abbiamo bisogno di imposizioni, di obblighi, di minacce.

In Svezia ci si basa sulla fiducia, dalle nostre parti parentesi (e, a dire il vero, non solo dalle nostre parti) si deve promettere il carcere per far comprendere che stiamo giocando con la vita e la salute degli individui. Sarebbe bellissimo il giorno in cui oltre che al dovere badassimo anche all’etica, al farlo perché è necessario per gli altri.

Non basta sventolare una bandiera per sentirsi popolo, bisogna occuparsi ad ascoltare il respiro di quel popolo.

Stiamo a casa per scelta consapevole e non per semplice dovere.

Sarebbe un bel passo avanti.