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L'orca assassina e la violazione della vita di una minorenne (La Nuova Sardegna, 30 settembre 2017)

L’orca assassina e la violazione della vita di una minorenne (La Nuova Sardegna, 30 settembre 2017)

Questa è una brutta storia perché ci coinvolge, scava nelle viscere della rabbia, dell’impotenza, dipinge strade che nessuno dovrebbe mai intraprendere.
E’ una storia cattiva, perfida, oltre il limite della decenza, è una storia costruita con le peggiori intenzioni e finita in maniera terribile.
E’ una storia che, però, va raccontata.
Siamo alla periferia di Torino, nel profondo Nord. Una ragazza, ancora minorenne, finisce in una comunità protetta per minori. Ci finisce perché nella sua famiglia vive un orco – suo padre – che abusa sessualmente di lei. Ci finisce perché un Tribunale, quello dei minori, si rende conto che quella ragazza non può continuare a subire le violenze di un uomo che a chiamarlo padre è un profondo insulto.
La comunità famiglia è una delle soluzioni che si utilizzano per restituire un minimo di calore agli adolescenti turbati, è una possibilità affinché dei ragazzi minorenni possano ridisegnare i contorni della loro fragile esistenza. In una comunità si vive tutti insieme, si pranza e si cena insieme, si scherza, si ride, si guarda la televisione, si gioca con i tablet. Una comunità protetta è la ricerca di normalizzazione per chi deve affrontare i propri fantasmi, le proprie angosce.
Nella comunità vicino a Torino la ragazzina incontra una donna, un’educatrice. In tutte le comunità sono presenti queste figure che accompagnano gli adolescenti nella loro vita quotidiana: dalla scuola, agli impegni all’interno della comunità stessa.
Fa parte del programma.
L’educatrice, invece, come nei migliori romanzi di Stephen King, si rivela per quello che nessuno potrebbe mai immaginare: un’orca cattiva. Approfitta della sua posizione e della fragilità caratteriale della ragazza costringendola a soggiacere carnalmente con lei. La nostra minorenne rivive un nuovo trauma: un incubo infinito, un budello maledetto dove lei non aveva scelto di entrare ma non può neppure uscirne. Ma non basta.
L’orca, non paga di quello che ha già fatto, non contenta di aver distrutto per sempre la sua vita, le impone un nuovo giro nella giostra dell’orrore: rapporti sessuali con il marito, con un amante e con l’obbligo di uso di sostanze stupefacenti. In questa storia maledetta ed incredibile noi, ancora non ci siamo, ma avremo un ruolo.
La ragazza è terrorizzata anche perché teme di essere incinta e, a questo punto si confida con un’altra educatrice della comunità che, per fortuna sta dalla parte giusta. Scatta la denuncia e tutto sembra finito. Dentro quel maledetto budello si intravvede, per la prima volta, la luce. Ma non è così. Fuori da quel budello c’è un’altra ed incredibile realtà, forse peggiore, perché ci coinvolge. Fuori ci sono i tempi della giustizia che non sono quelli della vita.
Ci vogliono cinque anni perché si arrivi al processo dove l’educatrice, il marito e l’amante vengono condannati in primo grado. In appello ci sono lungaggini burocratiche spiegate successivamente dal Presidente della Corte d’Appello di Torino Arturo Soprano legate ad arretrati e ad una scelta di trattazione dei casi eccessivamente burocratica: tutto si svolgeva in base al giorno di deposito e non in base alla gravità del reato.
Quando viene depositata la sentenza (siamo nel 2017 per dei fatti cominciati nel 2002) le violenze singole e lo spaccio di droga sono ormai prescritti. Rimangono solo i reati relativi alla violenza carnale di gruppo. Gli imputati vengono condannati e presentano ricorso in cassazione. Purtroppo non ci sono più i tempi “tecnici” e la Cassazione non può fare altro che annullare la sentenza in quanto è intervenuta la prescrizione.
Gli imputati sono liberi e questa storia finisce con questo intollerabile epilogo. Ma solo apparentemente. Perché dentro questa maledetta storia, questa storia cattiva, assurda, ci siamo noi. Noi Stato, che abbiamo costruito un sistema eccessivamente garantista ma senza riuscire a capire che nelle scelte occorre il buon senso. Noi Paese, sempre molto attento ai diritti dei bambini che quando quei diritti vengono calpestati ci affrettiamo a chiedere soluzioni che non sono state ben calibrate.
Noi, dunque, siamo all’interno di questa cattiva storia, di questa figlia abbandonata da tutti: dagli uomini e dalla giustizia.
Occorre riflettere e partire da queste storie per ridisegnare i confini della “giustizia” e dell’equità. Non possiamo più permetterci storie come queste. Si deve intervenire affinché il corso dei processi, di alcuni processi come questo, imbocchino le giuste autostrade e garantiscano davvero la giustizia, quella vera, quella che in questa storia, purtroppo non c’è stata.