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L'inutilità dell'orrore.  (sardegnablogger, 1/1/2023)

L’inutilità dell’orrore. (sardegnablogger, 1/1/2023)

Il 2022, appena salutato, ci ha lasciato molti passaggi oscuri. Troppe donne uccise da uomini indegni e vigliacchi, troppi suicidi  nelle carceri sempre più sole a abbandonate e poi la strage. Quasi all’americana, per dei motivi assurdi, per delle liti di condominio. Chi è Caludio Campiti, l’uomo che ha distrutto vite e  arato il suo futuro di pesticidi e veleni?

Solitario, guardingo, con il rancore nelle tasche, ultimo forse non per scelta ma reietto per definizione. Un orizzonte scavato a tinte fosche, un figlio morto a 14 anni, sbattuto contro un albero mentre scendeva su una pista innevata delle Dolomiti, matrimonio sgretolato, nessun amico e la consapevolezza che il mondo fosse in eterno credito con lui. Claudio Campiti, 57 anni, entra  con un’arma nel gazebo montato all’esterno di un bar di Colle Salario, periferia Nord-est di Roma e comincia a sparare, a vomitare la sua rabbia contro chi credeva colpevoli di qualcosa: Elisabetta, consigliera del consorzio Valle Verde, il villaggio dove lui aveva un appartamento non finito, Nicoletta, commercialista, e Sabina. Tre donne presenti ad una normale riunione di condominio destinata ad una noiosa approvazione di un bilancio. La vita di sempre, quella reale si scontra in una giornata gelida di dicembre con chi, invece aveva una visione distopica delle cose, un ultimo quasi per scelta, un perdente per macchinazione, un uomo senza parole da consegnare agli altri. Claudio Campiti aveva un blog dove scriveva le sue verità, dove accusava l’universo mondo di mille nefandezze, troppe ruberie, ingiustizie seminate nella sua strada, nei sentieri del malessere quotidiano. La solitudine, l’incapacità di incontrarsi con gli altri, la possibilità di utilizzare le parole in maniera diversa, per costruire e non per distruggere. Claudio non è il solo e non è l’unico nei ritagli delle periferie della vita. Ci sono giovani che coltivano i fiori del male non riuscendo a dipingere nessun futuro. Un’esistenza in bianco e nero ad osservare gli altri, ad accusare gli altri, a denigrare gli altri, a minacciare gli altri. Una cultura un po’ salvifica e un po’ politica: la colpa è sempre degli altri perché non si è in grado di analizzare in maniera autocritica i propri gesti e le proprie scelte. Uomini cresciuti con la cultura del “macho”,  del domandare senza attendere, utilizzando urla e forza fisica. Uomini soli, disperati, rannicchiati nell’immensa tristezza, incapaci di produrre lacrime, impacciati negli abbracci, desiderosi soltanto di ottenere una ragione effimera, di facile presa mediatica, di un consenso virtuale in un mondo che divora e non si ferma a raccogliere i cocci dell’anima di nessuno.

Claudio non conosceva molte persone in quel grande condominio che è il mondo. Non salutava praticamente nessuno, era fermo al dolore per la morte di un figlio, aveva chiesto giustizia per quella scomparsa giudicata da lui blasfema, come solo un genitore può considerarla. Chiedeva poche cose tutte materiali, pretendeva l’abitabilità per uno stabile non in regola, insisteva con tutti, non accettava ragioni.

Claudio è lo stereotipo di chi è stato divorato dalla velocità espressa dalle città, dai luoghi intensamente abitati, dai successi effimeri, dall’incapacità di utilizzare con soddisfazione e tranquillità le rotonde pause della vita. La scelta del poligono è quasi naturale per un lupo solitario:  imbracciare un’arma e sparare ad una sagoma e colpirla. Serve, dicono, ad allontanare la frustrazione, a sentirsi partecipi di un disegno, ma non è molto chiaro quale. Così, come da altri parti del mondo (Stati Uniti su tutti),  si imbraccia l’arma, si mettono in tasca le pallottole e si va alla costruzione di una propria giustizia senza che nessuno abbia mai avuto sentore, senza che nessuno abbia compreso gli sguardi e i movimenti di chi, come Claudio, cammina sempre nel buio delle scale delle vita, non utilizzando mai l’ascensore sociale. Questa strage ha due facce: è il punto di partenza per provare a scrutare il boato di solitudine delle città prodotto da una frenesia   assurda e inutile ma è anche il punto d’arrivo di ciò che siamo: tra le luci di un Natale sempre più solitario e il buio di chi non ha luoghi su cui costruire il proprio avvenire.

Claudio è la nostra sconfitta, il nostro voler mettere le coscienze sotto la polvere e chiudere gli occhi alla disperazione.

Giampaolo Cassitta