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Lettere dal carcere minorile (La Nuova Sardegna, 28 dicembre 2017)

Lettere dal carcere minorile (La Nuova Sardegna, 28 dicembre 2017)

Caro Babbo Natale, mi chiamo Andrea ma potrei chiamarmi Juanito, Abdul, Michele, Assim. Ti scrivo perché lo fanno tutti e perché, seppure ho compreso che non esisti, è bello poter pensare ci sia qualcuno che pensi a me e ai miei compagni. Siamo ragazzi minorenni, non abbiamo ancora diciotto anni e viviamo tutti insieme un’esperienza che non è bellissima. Perché un carcere, lasciamelo dire, è una pessima esperienza soprattutto per dei ragazzini. Sono le regole, certo. Regole che abbiamo infranto e molti di noi lo hanno fatto per troppe volte. Perché è vero: è difficile per un minore, in Italia, finire in carcere. Accade solo per determinati reati e solo quando non riusciamo a stare ai patti nelle comunità dove veniamo prioritariamente inseriti. Lo so, è una brutta storia ed è un’esperienza della quale se ne potrebbe fare a meno, ma siamo qui. Non siamo in tanti, per fortuna. Anzi, a dire il vero siamo pochissimi: in Sardegna soltanto dodici. Una squadra di calcio con una riserva. Solo alcuni di noi sono sardi poi, proprio come una squadra di calcio che si rispetti, abbiamo rappresentanti di diverse nazioni. Il carcere è carcere ed è, dunque, limitazione della libertà, di quella libertà per cui gli uomini lottano a volte anche mettendo in gioco la propria vita. Questo lo abbiamo imparato a scuola, proprio in galera. A noi è sembrato un paradosso che i professori – tutti bravissimi – ci insegnino il valore della libertà in un luogo dove è difficile anche pensare. Io non so se il carcere serva a qualcosa, sono troppo piccolo per dirlo, posso però dire che il carcere segna, come qualsiasi esperienza che si fa a livello adolescenziale e che non di dimentica più per tutta la vita. Le feste sono degli avvenimenti terribili, che viviamo sempre con molta angoscia. Vorremmo non arrivassero mai, perché non è bello passarle dentro queste mura, lontano dagli affetti. Molti di noi hanno le famiglie molto lontane, altri dei nuclei disgregati, qualcuno ha i genitori e i fratelli che sperano in un nostro permesso festivo e qualcuno di noi, a dire il vero, quel permesso lo ottiene. Ed è, per chi rimane, un altro colpo al cuore. C’è molta attenzione nei nostri confronti: educatori, poliziotti, assistenti sociali, volontari. Tutte persone che si occupano di noi, che organizzano e provano a pianificare il nostro futuro. Non è semplice, io li capisco. I nostri errori, le ferite che abbiamo procurato sono difficili da rimarginare. Ci hanno proposto uno strano percorso: gli operatori ci hanno insegnato che è importante incontrare le vittime, parlare con loro del nostro reato, provare a discuterne insieme, provare a crescere anche dentro i silenzi che, vi giuro, sono terribili. Non siamo fatti per essere cattivi e, come dice il coniglio Roger Rabbit, a volte ci disegnano così ed è difficile dimostrare che siamo altri, che possiamo essere altro, che vorremmo essere altro. Il carcere livella le coscienze e anche le emozioni che però continuano a suonare in quello strano pentagramma con qualche nota stonata, da rimettere in ordine. Noi ci proviamo quasi tutti i giorni a modificare le note ma non possiamo. Qui ci sono solo penne da utilizzare.
Caro Babbo Natale, da questo carcere gonfio di parole che non riescono ad uscire, denso di emozioni e di abbracci che non riusciamo a dare ti chiedo, per me e i miei compagni di sventura, per questa strana e colorata squadra di calcio, un regalo semplice: un quaderno di musica per ognuno di noi, una matita e una gomma. Così potremmo disegnare le nostre note e se la musica che produrremo non sarà bella potremmo avere la possibilità di cancellarla e riscriverla. In fondo tutti dovrebbero avere sempre in tasca una matita e una gomma, tutti dovrebbero avere la possibilità di riprovarci.
Da questo piccolo posto dove disegniamo giornate quasi sempre orizzontali auguriamo a te e a tutti quelli che leggeranno questa lettera Buon Natale. Pensate a noi, alla gomma, alla matita e alla bellezza di una musica che, seppure non bellissima, è semplicemente la nostra.