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Le nostre storie, la nostra cattiveria (La Nuova Sardegna, 28 luglio 2018)

Le nostre storie, la nostra cattiveria (La Nuova Sardegna, 28 luglio 2018)

Dovete ascoltarle le storie, ascoltarle in silenzio. Come quando, da bambini, si stava davanti al camino a sentire quello che ci raccontavano i nostri vecchi. Dovete percepire il dolore e l’orrore che emanano, il rumore dell’odio che ha avvelenato i pozzi della coscienza, che ha squartato l’anima e la vita, lasciando ferite indelebili, quasi impossibili da rimarginare. Josefa si è aggrappata alla vita quasi con la stessa violenza che le è stata riservata nei campi di concentramento in Libia, la stessa violenza che ha usato il marito in Camerun, la stessa violenza di chi ha deciso di non ascoltare la sua storia. E c’è ancora chi dice che queste persone non hanno cassetti di ricordi, non hanno padri e non hanno patria: c’è ancora chi dice che ormai è ora di chiudere i porti. Come se fosse facile sbarazzarsi delle storie, come se fosse semplice camminare sui cocci dell’esistenza, come se fosse utile voltarsi dall’altra parte. Non sono persone che vogliono caracollare dentro le nostre vie e le nostre città chiedendo l’elemosina, non sono solo quello; non sono persone che cercano la “pacchia” dentro uno Stato goffamente e falsamente ricco e livido, non sono solo quello; non sono stupratori, avventori, mangiapane a tradimento: sono persone, moltitudini che chiedono di essere ascoltate  e dentro quella scia di strade ci sono anche quelle sbagliate. Come da tutte le parti e in tutte le patrie: ci sono i ladri e ci sono i poliziotti, i buoni e i cattivi. Josefa aveva diritto di sopravvivere per evidenziare la nostra meschinità: quel modo sdrucciolevole che abbiamo di scrivere immense sciocchezze nei social senza conoscere la vita e le opportunità di chi ci sta davanti; Josefa aveva diritto di spalancarci gli occhi per ricordarci di tenerli aperti davanti alla verità e contro tutte le ipocrisie. Quale diritto abbiamo di mettere tutti in un unico calderone e di chiamare quello che non ci piace “gli altri”? Quale diritto abbiamo di sputare ignobili sentenze davanti a ciò che gli “altri” ci raccontano e che si rivelano molto meglio di noi? Avete guardato il marcio che abbiamo intorno? Le strade sporche e putride che quotidianamente utilizziamo per costruire falsi altari e stolide verità? Possibile che siamo diventati così insensibili agli occhi di un bambino, di un uomo, di Josefa e ci scandalizziamo se si picchia un cane? Ma di che storie ci stiamo nutrendo? Josefa fuggiva dal Camerun, aiutata dai suoi genitori perché il marito la picchiava selvaggiamente; fuggiva perché riteneva di poter vivere meglio e con più dignità da qualche altra parte. Josefa è stata picchiata e violentata nell’inferno delle sale d’attesa della Libia che non sono, a quanto pare, alberghi e neppure piccoli B&B. Ma noi sputiamo su Josefa, sulla sua vita, sulle sue ferite, sulla sua storia che, invece,  andrebbe ascoltata. Perché non si fugge per arricchirsi o vivere alle spalle degli altri: si fugge perché si ha paura, vergogna, terrore. Si fugge per disperazione. Mio zio, da giovane, è fuggito dal suo paese nell’entroterra sardo. E’ andato in Belgio a sputare sudore e tristezza dentro un’infame miniera. Come Mahomoud che raccoglie i pomodori in Calabria, come Fareth che lavora le pelli in una conceria dove noi, gli arricchiti, non vogliamo più andare. Scrivetela bene la storia delle genti e delle generazioni e abbiate il coraggio di guardare in faccia queste persone. E’ facile giocare con i polpastrelli davanti ad un computer  e prendersela con chi ci “invade” e ci ruba il lavoro,  ci prende le case popolari e continuiamo con gli insulti falsi e ipocriti perché non abbiamo il coraggio di dire che questa strana “invasione” non esiste, la maggioranza dei migranti sono divisi tra Germania e Francia, la quasi totalità di chi vive in Italia lavora ed è, il più delle volte,  sfruttato e sottopagato dai nostri patrioti. Quando guardate gli occhi di Josefa fermatevi un attimo: sono gli stessi di quelli di mio zio: sardo ed emigrato in Belgio, in miniera e non era una pacchia, credetemi.

 

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