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L’aria ferma del carcere di Bancali (La Nuova Sardegna, 17/10/2022)

Un omicidio, un suicidio e diversi eventi “critici” sono ormai una prova: il carcere di Bancali è un malato al cui capezzale nessuno sembra volersi avvicinare. E’ da anni che manca un direttore titolare, è da anni che non c’è un comandante, è da anni che non ci sono educatori in numero sufficiente. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria conosce il problema ma non ha mai trovato soluzioni e le poche intraprese sono servite per tamponare le ferite nel tempo mai rimarginate. Un carcere è un’istituzione complessa dove in tutti i momenti si deve fronteggiare l’emergenza. E’ un luogo vivo e sempre in movimento seppure all’interno di un perimetro delimitato. Se ne parla solo in occasione di un grave fatto poi, passata la tempesta, tutto ritorna nell’acquario silenzioso e dimenticato. La scelta di chiudere San Sebastiano nel 2013 fu sacrosanta. Era un istituto superato ed inadatto ad un processo rieducativo. La scelta di costruire un carcere fuori della città fu un errore sociale e fin da subito si comprese che quella lontananza fisica con la comunità avrebbe pesato moltissimo. A Bancali, per parafrasare il bellissimo film girato a San Sebastiano, l’aria è ferma: per inadempienza strutturale, per paura, per disperazione, per mancanza di coraggio da parte dei vertici dipartimentali, per mancanza di visione. Tenere in piedi una struttura senza un progetto vero e definito è come mantenere una città senza un sindaco, una squadra senza un allenatore e sperare solo nella divina provvidenza. Avere un progetto significa pianificare, scommettere sulle persone e non limitarsi a tenerle chiuse 23 ore su 24. Avere un progetto significa poter dare risposte alla comunità esterna e non chiudersi impauriti nel recinto del “qui ed ora”. Il carcere di Bancali è un micro quartiere della città e come tale va inserito in un contesto più ampio. Non possiamo chiudere gli occhi e credere che tutto sia legato al destino. Gli sforzi degli operatori, utili, indispensabili, necessari, non bastano, non sono più sufficienti. Quel deserto assolato, privo di parole e di interventi da parte della comunità sociale  deve avere un altro tipo di risposte per delle persone private della libertà  ma  non della dignità. Servono un direttore e un comandante titolari, servono più educatori, più mediatori penali, più risorse sociali; serve uno sguardo fermo verso l’organizzazione interna, serve più lavoro per i detenuti. Non serve, invece, dire che tanto è un luogo di delinquenti, di gente che la galera se l’è cercata e se la merita, che i problemi sono altri. Lo dico da sempre e lo ripeterò sempre: dal carcere prima o poi si esce. Dobbiamo preparare queste persone ad affrontare il dopo e utilizzare il “durante” in maniera propositiva e ripartiva. Stare senza far niente è deleterio e inutile.  Stare senza far niente in carcere significa, comunque, “fare qualcos’altro”, trovare soluzioni sbagliate pe riempire il  vuoto del tempo. Sassari ha nella sua cultura centenaria il carcere come nucleo vitale. Il fatto di non vederlo più “fisicamente” non significa  sia scomparso. Il carcere c’è, fa parte della nostra vita, è il risultato di una scelta legata ad una “democrazia penale” e non può essere dimenticato. Occorre, a questo punto, trovare un punto d’incontro tra le istituzioni. Il sindaco, garante di tutti i cittadini, compresi i detenuti, deve agevolare un incontro, deve chiedere una dirigenza stabile per un quartiere importante come il carcere. Non possiamo solo rimanere senza parole quando quel luogo è attraversato dalla morte. Si deve smuovere quell’aria ferma. La società esterna chieda di accendere, con forza e determinazione, le luci su quel quartiere. Si chieda l’arrivo di almeno altri sei educatori, si rafforzino gli interventi sociali. E’ vero, i detenuti (quelli definitivi) non votano, ma restano cittadini di una città che non può dimenticarli, abbandonarli e far finta di versare piccole lacrime quando, da quelle parti, si muore.