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La vita sospesa di un innocente (La Nuova Sardegna, 28/1/2024)

La vita sospesa di un innocente (La Nuova Sardegna, 28/1/2024)

C’è una parola immensa che cammina tra le mura di tutte le carceri del mondo: leggera ed infinita, docile e capace di colorare i cuori induriti dei detenuti. Quella parola è “innocenza”. Si usa di frequente e a volte se ne abusa.
Chi ha camminato tra le vite sospese delle sezioni di un penitenziario la sente spesso e, molte volte, a sproposito: “sono innocente”. La frase produce un rumore denso di significati e di vite sottotraccia sepolte da sentenze ormai definite per sempre. Così pensava Beniamino Zoncheddu tra le mura di Buoncammino, quando annusava il rumore del mare e osservava quella cella maledetta, quelle sbarre che limitavano la sua vita, la sua libertà. Lo ha ripetuto tutti i giorni, a tutte le ore, ha respirato quella polvere di carcere ingiusto. Lo ha fatto per oltre 30 anni. Da innocente. Provate, solo per un attimo, ad immaginare la vostra vita scandita dai rumori delle chiavi, dalle urla della disperazione, da movimenti lenti, identici tutti i giorni.
Provate a pensare di dover spartire il vostro spazio con degli sconosciuti, i vostri pensieri con la disperazione, la vostra vita con una morte sospesa, in attesa di una verità che pareva negata, lontana. Beniamino Zoncheddu era ed è innocente.
Lui lo sapeva, lo ha sempre saputo e ha provato, da innocente, a dimostrarlo. Non c’è riuscito perché, a volte, le parole in un tribunale, in un interrogatorio, in un confronto non camminano nei binari della ponderazione. C’era stata una strage l’8 gennaio del 1991. Questione di confini non rispettati, di uccisioni di animali, sfide di campagna. Forse. O forse no. Zuncheddu pareva il capro espiatorio perfetto per chi doveva velocemente giungere alla conclusione della storia. E come sempre, le cose che non collimano si aggiustano, si provano a limare le dichiarazioni, si tenta di costruire una verità processuale. Un testimone sopravvissuto che riconosce lui, Beniamino, anche se prima aveva dichiarato di aver notato una persona con il volto coperto da una calza da donna e non sapeva identificarlo. Una sentenza che cammina veloce verso la conclusione più comoda per gli inquirenti, per chi non riesce mai ad analizzare, fino in fondo, anche i risvolti antropologici e sociali di fatti e misfatti in un contesto non proprio semplice. Così la condanna all’ergastolo, a quel fine pena mai che chiude qualsiasi spiraglio, che distrugge la vita e costringe a sopravvivere all’interno di un limbo.
“Trent’anni di menzogne”, ha dichiarato il procuratore generale Francesco Piantoni in corte d’Assise di Roma. Menzogne che hanno svuotato l’anima di Beniamino Zoncheddu, hanno minato, per sempre, la sua esistenza e hanno costretto noi ad interrogarci sui nodi della giustizia, sul chiedere condanne severe e urlare smodatamente di buttare la chiave. Cosa che, ai suoi tempi, avevamo reclamato nei confronti di un innocente.
E adesso? Qualcuno potrà sempre affermare che non tutti sono innocenti ed è essenzialmente vero ma se uno, soltanto uno è condannato per un delitto che non ha commesso dobbiamo affermare che il sistema ha perso, è stato sconfitto.
Ho conosciuto migliaia di detenuti e ho camminato dentro le loro storie. Non sono stati molti quelli che hanno professato la loro innocenza. Alcuni, però, lo hanno fatto con forza, con veemenza, con disperazione. Dall’analisi delle sentenze mi sono reso conto che, a volte, non vengono presi in considerazione alcuni fattori, soprattutto quando si tratta di delitti senza prove certe, quando gli investigatori devono riuscire a mettere insieme il rompicapo degli indizi a loro disposizione.
Beniamino Zoncheddu ha pagato un prezzo davvero troppo alto, inenarrabile, ha vissuto nel gran calderone delle ingiustizie più infami nel nome di una giustizia che si è rivelata fallace. In nome del popolo italiano è stato condannato un innocente e tutti, oggi, dovremmo chiedergli scusa.
Gli operatori della giustizia per primi e dovremmo provare a riflettere prima di urlare senza neppure pensarci troppo: “buttate la chiave”.