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La falsa società di coccole (La Nuova Sardegna, 15 marzo 2018)

La falsa società di coccole (La Nuova Sardegna, 15 marzo 2018)

Una serie di episodi di violenza contro gli insegnanti da parte di studenti o di genitori portano ad ulteriori riflessioni.
Qualcuno afferma che si è superato da tempo qualsiasi steccato o, più probabilmente, sono proprio sparite alcune linee di demarcazione che erano ben evidenti nella società degli anni sessanta e settanta. E’ probabile che ci sia una commistione molto pericolosa dei ruoli e vivendo in una società liquida le funzioni si sono fuse e miscelate tanto da non conoscerne più i confini.
I ragazzi, oggi, hanno potenzialità diverse dalle generazioni precedenti e hanno la possibilità di essere più razionali e veloci a discapito della passione. Siamo passati da una società di coccole ad una società di calcolo e tutti, indistintamente, vogliono raggiungere subito un posto in prima fila. Il punto è proprio questo: la quasi certezza che tutto sia perfetto, a portata di mano e che gli arbitri, i giudici, i maestri, coloro i quali devono analizzare la qualità  dei gesti e delle azioni, non solo non siano degni ma non devono, nella maniera più assoluta, provare neppure a fischiare. Possono osservare ma con il fischietto in tasca. Non è più ammesso neppure il piccolo rimprovero, il rimbrotto verbale, l’ammonizione, la promessa di un castigo, la punizione. I nostri figli non reggono a questa pressione che si chiama “confronto”. Loro  sono cresciuti con la consapevolezza che tutto sia possibile, permesso, a portata di mano. Si può cominciare a cantare e provare ad iscriversi in qualche programma e sperare di andare a Sanremo senza conoscere neppure una nota del pentagramma. Oppure il sogno è legato ad girare  un corto,  un videoclip, un qualcosa che produca notorietà in quella strana ricerca di “mi piace” effimeri e inutili che se facessero parte del mondo dei giovani potrebbero anche essere giustificabili. Ma non è così. I genitori sono gli allenatori sociali dei propri figli ma utilizzano tutti gli anabolizzanti presenti sul mercato per “gonfiare” astrusamente le performances dei propri cuccioli e non permettono a nessuno di verificare, di soppesare, di analizzare. I figli non si toccano. D’altronde il futuro, nel nuovo millennio, è una certezza rapida e non ci sono più ipotesi da confrontare. Il figlio diventa un prodotto da lanciare sul mercato, un essere costruito ad immagine e somiglianza dei vari network, dei social, un prodotto da mostrare soprattutto sotto l’aspetto fisico. Nessun docente può permettersi di dire che il pargolo non ha studiato in quanto egli tornerà a casa e dichiarerà al genitore sceriffo di essere stato insultato davanti a tutti. Non è vero ma non ci sono appelli nel mondo effimero gonfio di certezze e le parole di un ragazzino, di un minorenne, non vengono neppure filtrate e pesate con la dovuta saggezza che un adulto dovrebbe portare come dote. Così si va a scuola, si affronta il professore e lo si colpisce freddamente, vigliaccamente,  perché reo di aver strattonato – seppure a parole – il futuro tronista di chissà quale trasmissione. Se questa è la logica, se questi sono gli esempi è chiaro che raccontiamo ai nostri figli storie dove le regole non ci sono più e che a decidere non è più l’arbitro ma il giocatore. Noi, compiacendoli, assecondandoli, dandogli sempre retta, stiamo appiattendo il loro carattere, stiamo costruendo esseri cinici, in grado di non gestire le proprie emozioni, esseri disposti a tutto pur di ottenere quello che ci si è prefissati. Ragazzi fragili, di una fragilità pericolosa e diversa da quelli silenti e un po’ ipocondriaci che siamo stati noi davanti ai piccoli fallimenti che abbiamo vissuto. Parafrasando Fabrizio De André “ci innamoravamo di tutto” e portavamo a casa le nostre delusioni e le nostre lacrime. Eravamo però in grado di ripartire senza l’aiutino di nessuno, neppure dei genitori. Avevamo imparato la cultura della sconfitta che sembra totalmente ignorata in questa corsa effimera ad apparire e a diventare troppo uguali ad un canone che non ammette la diversità. I nostri figli devono imparare a perdere se vogliono crescere davvero.