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Il perimetro del dolore (La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2019)

Il perimetro del dolore (La Nuova Sardegna, 2 febbraio 2019)

Da qualche parte bisogna pur partire per perimetrare il dolore. E l’orrore. Da qualche parte bisogna pur cominciare ad osservare e soppesare la mancanza di dignità e di pietà. Partiamo da una pagella cucita in una giacca. Meglio: cucita sulla pelle. Perché quando si parte, sulla barca non ti fanno portare gli zaini, non ti permettono di metterti in tasca neppure i telefonini. Niente.
Quando si parte dall’inferno di quel mondo non c’è spazio per la memoria. Partiamo da un ragazzo con in tasca una pagella, un piccolo pezzo della sua vita, uno che vuole scommettere sul futuro, uno che quei voti messi in fila ce li vuol far vedere per raccontarci che è partito con un bel bagaglio: il sapere. Ma non è bastato, non è servito. Lui, il ragazzo senza nome, aveva quattordici anni e nessuna lacrima da spargere. Perché questo è il mare: miscuglio di gocce salate e insipide. Lacrime e silenzio. Negli anni quanti ne sono morti dentro il mare nostrum? Dicono dodicimila. Forse quindicimila. Una guerra mai combattuta, dicono. E dicono che tra un migliaio di anni, quando qualcuno scoprirà le ossa nel Mediterraneo, penserà a carneficine o epidemie. Un piccolo olocausto vissuto tra la totale indifferenza.
Partiamo dalla mancata accoglienza, da un finale che non è felice. Partiamo da ciò che è accaduto a Castelnuovo di Porto, alle porte di Roma, dove centocinquanta persone che non possono rinnovare il permesso di soggiorno per le nuove disposizioni legislative del decreto sicurezza.
Partiamo da Anthony, Malamin, Lemlen, Kanteh, piccole storie normali, amplificate dalla volontà di non volerle neppure ascoltare. Lemlem, per esempio, doveva iniziare la chemioterapia. E’ malata di cancro ed è una “dublinata”, una migrante che, in base al regolamento di Dublino, se viene scoperta in un paese diverso da quello dove è arrivata è espulsa. Era riuscita ad arrivare in Germania Lemlem, dove aveva amici e familiari ma l’hanno scovata e rispedita nel nostro paese. Ha il cancro, quella maledetta malattia che costruisce molta solidarietà attorno solo se sei bianco o sei italiano. Lemlem è etiope. Ha il cancro, ma non conta e deve lasciare Castelnuovo. Deve lasciare l’Italia. Anche Kanteh deve essere espulso. E’ nato in Gambia, ha un permesso umanitario in scadenza ma in quel centro non può più stare. Si è armato di pazienza, si è messo le poche lacrime in tasca e andrà verso un futuro che non ha orizzonti: una baraccopoli in Calabria, dove qualche caporale gli offrirà un lavoro e lo sfrutterà come uno schiavo. Il caporale e il padrone saranno italiani. Prima gli italiani.
Ma che paese siamo diventati? Ci siamo assoggettati all’arte dell’etichettamento: tutti i neri sono cattivi e fanno paura. Noi, figli di emigranti e con dentro, per anni, il bubbone dei sequestri di persona. Noi, che ci offendevamo – e giustamente – quando dicevano sardi sequestratori. Noi, adesso, osserviamo le navi che si avvicinano nei porti e diciamo che nessuno deve sbarcare. Nessuno. Che il mondo, dalle nostre parti, è dipinto molto bene e non prevede i neri.
Non prevede gli altri.
Noi, che per anni siamo stati gli altri. Siamo stati quelli che non potevano entrare nei bar tedeschi, svizzeri, olandesi, francesi. Siamo stati quelli che vivevano nelle baracche senza acqua, senza luce. Siamo stati i neri, i migranti, i presunti cattivi, gli esclusi. E qualcuno, a lungo andare, a sentirsi non accettato, ha cominciato a sbraitare, a non reggere quella pressione.
Noi, altri in terra straniera, a subire nel silenzio di tutti, a ricercare nel fondo delle coscienze la dignità perduta.
Noi siamo qui, a guardare questo strano mondo e non dire più nulla. Meglio, ad affermare che è giusto sia così, che i neri ci fanno paura, che i neri sono un pericolo per la nostra sicurezza.
I neri sono “gli altri”. Da qualche parte bisogna pur partire per provare a distruggere questo castello di sabbia, questa gigantesca bugia di un problema che non c’è: finiamola di dividere il mondo in base al colore della pelle o della provenienza geografica.
Noi sardi, almeno noi, non ce lo possiamo permettere.