Il difficile mestiere di genitore (La NUova Sardegna, 2 giugno 2021)
Cosa porta una madre quarantenne ad uccidere prima la figlia e, subito dopo, scegliere di farla finita? Quanta disperazione e quanta solitudine nasconde questo gesto? Non è legato a problemi economici, non è inserito in un processo di disconoscimento genitoriale e non è un gesto di vendetta. La figlia, un’adolescente come tante di quella generazione, andava molto bene a scuola anche se la madre pretendeva di più. Lo aveva scritto su facebook «Alcuni figli non capiranno mai la tacita supplica di un genitore che ti mette in guardia da qualcosa». Era, forse, un grido di una madre apprensiva, molto attenta alle scelte della ragazzina. Con il padre c’erano alcuni dissapori, dovuti probabilmente all’educazione della figlia che lui considerava troppo rigida. Il gesto è però abnorme e restituisce la fragilità di una donna che non è riuscita a vivere con normalità quello che per una madre dovrebbe essere consueto e non lo è: il mestiere di genitore. Lo si racconta da sempre che essere padre e madre è sicuramente naturale, almeno nell’atto del concepimento. E’ difficile crescere quel figlio, sapergli raccontare le storie giuste, riuscire a disegnare gli abbracci necessari, le carezze ideali, i rimproveri puntuali, utili a farlo crescere. Siamo così impegnati a costruire la vita dei nostri figli che non ci soffermiamo sulla nostra adultità: su cosa significa essere genitore, su cosa comporta effettuare determinate scelte che porteranno a modificare inequivocabilmente la vita dei nostri figli. La nostra generazione ha vissuto intorno ad una comunità parentale che oggi non c’è più: quelle famiglie allargate sempre attente ai ragazzi che consideravano come dei figli ai quali dispensavano tutta una serie di consigli, patrimonio della continuità: nonni, zii, padrini, amici, cugini. Un mondo che lentamente si è dissolto per lasciare lo spazio ad altre comunità forse più attraenti ma troppo “costruite” : i nostri figli vanno in palestra, giocano sotto lo sguardo attento dei genitori nei giardini comunali, fanno parte di comunità virtuali, si sfidano in giochi forse troppo violenti e devono essere sempre competitivi. Continuiamo a riempire il loro mondo di “troppo” per paura che possano annoiarsi, essere indolenti, fragili, quasi inutili. E’ difficile essere genitori e probabilmente è il mestiere che non si imparerà mai. Dovremmo però comprendere che i nostri figli – che non sono nostri ma del mondo – sono un prestito bellissimo e dovremmo prepararli alla libertà, al ricercare la felicità, ad assaporare la noia, a sorridere dell’indolenza, a comprendere che i colori dell’arcobaleno sono bellissimi ma prepararli alle giornate grigie, a volte nere. Questa è la vita. Quella vita che la madre di Santo Stefano di Camastra, in provincia di Messina, non è riuscita ad incanalare nel pentagramma giusto. Bastava essere normali e meno speciali, bastava sorridere di un quattro in matematica per poi ritornare severe e chiedere un impegno più forte, più deciso. Per ogni genitore il figlio è un essere speciale. Ed è vero. La specialità non consiste però nella perfezione e nell’essere più bravi di tutti. Dobbiamo riuscire ad apprezzare le loro fragilità, le loro piccole sconfitte. Dobbiamo riuscire a comprendere che la loro felicità non collima con quella felicità ideale e che, ammettiamolo, non esiste. Quel gesto di una madre che uccide una figlia e subito dopo si uccide è un segnale inconfondibile della nostra impotenza ad affrontare la normalità che prevede anche una serie di dissapori, di disaccordi familiari, di diversi punti di vista. Il rapporto di coppia si “zappa” tutti i giorni non perché sia incolto ma proprio perché quei prodotti che vorremmo far crescere necessitano di un terreno fertile e disposto alla vita. Il suicidio è sempre qualcosa di terribilmente intimo, difficile da analizzare. I nostri figli hanno bisogno di noi. Tutti i giorni. Ma non serve essere la loro bombola d’ossigeno. Lasciamoli sbagliare, inveire, intristirsi. Serve per farli crescere.